Salambò

“Non gli piacevano i libri in cui di malumore e con la luna di traverso si raccontavano le vicende qualsiasi della vita qualsiasi di persone terribilmente qualsiasi. Ne sentiva già abbastanza nella realtà di tutti i giorni, a che scopo stare anche a leggerle?”

Questa citazione – tratta da un libro che dovreste conoscere a memoria sennò vergognatevi! – sintetizza perfettamente l’atteggiamento dell’Accademia della Fuffa nei confronti della letteratura. Non che ci piaccia solo la cosiddetta “letteratura di evasione”, di svago o di fuga dalla realtà (sempre distinguendo, come ci insegna nonno Tolkien, tra la “diserzione del soldato e la santa fuga del prigioniero”) – ma, sarà un nostro difetto, sarà colpa della televisione o dei giochi di ruolo o dei prof al liceo, proprio non ci piacciono quelle vicende “qualunque”, quotidiane, di mariti, mogli e figli alle prese con cose che tutto sommato capitano a chiunque e quindi ci chiediamo perchè leggerle, santiddìo. Quindi Gustave Flaubert, con la sua Madame Bovary, l’Educazione sentimentale, Bouvard & Pécuchet, non è che ci interessasse molto già in partenza, ma Salambò, anzi, Salammbô, merita un discorso a parte. Fra parentesi, leggiamo nella cospicua introduzione che “l’opera fondamentale di Flaubert (…) è la creazione di una sostanza psichica nuova”. Ora, lungi da noi il criticare i critici, specie quelli letterari, ma cosa si intende esattamente con “creare una sostanza psichica”? Flaubert era forse uno degli X-Men? “Sei in trappola, Magneto! Ho creato una barriera di sostanza psichica che ti impedirà di nuocere una volta per tutte!” – “Dannato Flaubert! Ancora una volta mi hai sconfitto!” – vabbè, era una domanda retorica. Comunque, ci par di capire che creare sostanze psichiche fosse proibito dal rigido codice penale della Francia ottocentesca – e Madame Bovary diede per questo un bel po’ di grattacapi al nostro Gustave. Il quale decise di prendersi una vacanza dalla realtà componendo proprio Salammbô. E quindi: tanto per sgombrare il campo da equivoci e qui pro quo: Salammbô è un romanzo fantasy. Anzi, meglio: sword and sorcery. Roba del tipo: “Sto leggendo un romanzo: parla di popoli strani ed esotici, di battaglie spietate, di sacerdoti di culti bizzarri; ci sono barbari invincibili e sacerdotesse seminude, veleni, serpenti giganti e cannibali” – “Ah! Robert Howard, immagino.” – “No, Flaubert.” – “Quello della sostanza psichica?” – “Proprio lui.” – “Ah.”
Salammbô prende spunto da un fatto storico: la rivolta dei mercenari che Cartagine aveva assoldato per la guerra contro Roma. Costoro, visto che la paga non accennava ad arrivare, la presero mica tanto bene e misero a ferro & fuoco la città. Su questo sfondo si inscena la storia di Salammbô: figlia di Amilcare (Amilcare Barca, eroe della prima guerra punica), bellissima sacerdotessa della dea Tanit, si vede sottrarre dal barbaro Matho il preziosissimo Zaïmph, il velo sacro che nasconde la statua della dea. Senza la mistica reliquia Salammbô cade in disgrazia mentre Matho diviene il capo indiscusso dell’esercito assediante, aiutato dal perfido Spendio, un ex-schiavo greco maestro di astuzie e colpi bassi, dal Gallo Autarito, e dall’ambiguo Narr’ Havas, capo dei Numidi. Cartagine, guidata da capi inetti (fra cui il vile Annone, che la lebbra e la pinguedine rendono simile a Jabba the Hutt) e sconvolta dalla perdita dello Zaïmph, sembra destinata alla sconfitta, fino al ritorno in patria del condottiero Amilcare, che rimette tutto in gioco. Al che iniziano le mazzate. “Matho avanzava falciando attorno a sè i Cartaginesi. Quelli che tentavano di prenderlo ai fianchi li atterrava con l’elsa della spada; quando lo attaccavano di fronte li trafiggeva; su quelli che fuggivano menava fendenti. Due uomini gli saltarono insieme sulla schiena; con un balzo arretrò contro una porta e li schiacciò. La sua spada si abbassava, si sollevava. Volò in frantumi contro lo spigolo di un muro. Allora prese la pesante ascia, e per davanti e per di dietro si mise a sventrare i Cartaginesi come un gregge di pecore.” Altro che Conan il Barbaro. Fra parentesi, subito dopo entrano in scena elefanti corazzati e torri d’assedio che neanche Peter Jackson. Comunque, tra un massacro e l’altro, tra una crocifissione e un sacrificio umano (“Le braccia di bronzo si muovevano più veloci. Non si fermavano più. Ogni volta che vi posavano un bambino, i sacerdoti di Moloch stendevano una mano su di lui per gravarlo delle colpe del popolo, gridando: – Non sono esseri umani, ma buoi! – e la folla intorno ripeteva: – Buoi! buoi! – I devoti gridavano: – Signore! Mangia! – e i sacerdoti di Proserpina, conformandosi per il terrore alle esigenze di Cartagine, biascicavano la formula eleusina: – Versa la pioggia! partorisci! – “), tra una scena di cannibalismo e una di sodomia, Flaubert trova anche modo di regalarci un incredibile mondo, ricostruito nei minimi dettagli. In effetti è forse questa la cosa che colpisce di più, di Salammbô, a parte il sangue a secchiate: i dettagli. Abiti, cibi, bevande, profumi, sapori, usanze (“Narr’ Havas già gli stava venendo incontro. Si baciò i pollici in segno di alleanza…“), superstizioni, culture, popoli, leggende, religioni… una mole di dettagli che rendono Salammbô un libro incredibilmente ponderoso, oscuro, scottante, sulfureo, come il sole del deserto, come la pancia incandescente di Moloch, o come l’amore-odio che lega Matho a Salammbô, ovviamente, fin dal primo sguardo. Altro che educazione sentimentale. E comunque, dopo una lettura del genere, ci chiediamo: cosa aspetta Mel Gibson a farci un film?

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Update 13 / 5 / 2010: Abbiamo trovato questo sito spettacolare.


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Zanoni


“Il tuo sapere non è dunque più di un circolo che ti riconduce al punto di partenza. Generazioni intere furono falciate dall’ultima volta che c’incontrammo! Ecco: ora mi vedi di nuovo!” – “Ma io ti vedo senza timore! Benchè sotto i tuoi occhi migliaia siano periti, tu non sei il mio conquistatore, bensì il mio schiavo!”

Da quando l’amico Max (possa l’Onnipotente illuminare il suo cammino) mi regalò questo curioso romanzo ottocentesco, il mondo è molto cambiato: Internet e i cellulari erano fantascientifiche maraviglie, forse c’era ancora l’Unione Sovietica, George Lucas non aveva definitivamente affondato Guerre Stellari con la seconda trilogia e il peso degli anni e le cure della repubblica non avevano ancora inciso profonde rughe sui nostri volti (perdonate l’eccessivo lirismo, ma ci sta col romanzo in questione). Così, da quel giorno remoto, ho potuto leggermi Zanoni più d’una volta, e sempre con grande sollazzo, mentre l’amico Max, caro agli Olimpi, se n’è sempre ben guardato. In effetti, ad un esame superficiale, Zanoni sembra il classico feuilleton, un semplice, poco noto, romanzone gotico dalla trama arzigogolata e dal linguaggio barocco, sulla falsariga di altri capolavori quali il Monaco o il Castello di Otranto – cosa di per sè non deprecabile, visto che il genere a me piace moltissimo. L’autore, poi, Bulwer-Lytton, era un lord inglese amico di Dickens e di bizzarri occultisti di ogni genere, e ci ha lasciato, oltre a Gli Ultimi Giorni di Pompei, anche Vril, o il Potere della Razza Futura, un titolo che sa di fuffa lontano un miglio e quindi ci andiamo a nozze. Ma torniamo a Zanoni. Il sommo Poeta, Dante, scrive nel Convivio (madonna ma quanto siamo lanciati, oggi) che “le scritture… debbonsi sponere per quattro sensi“. Il primo è il senso letterale, “che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie” – limitiamoci, dunque, a quello che leggiamo. Ovvero, per cominciare, la storia di Viola Pisani, cantante lirica nella Napoli di fine ‘700, e del suo folle amore per il gentiluomo Zanoni, affascinane straniero giunto da chissà dove. Chi è questo misterioso signor Zanoni? Nessuno sembra sapere con certezza da dove provenga; come Cagliostro o il conte di Saint German, conosce tutte le lingue, è incredibilmente ricco e, sembra, molto, molto più vecchio di quanto il suo aspetto lasci intendere. Ama la bella vita, questo è certo, e partecipa ad ogni festa, ricevimento o serata; anzi, sembra che ami circondarsi di gaudenti e sibariti, del peggio dell’alta società napoletana. Ma costoro, i suoi compagni di sollazzi, ne traggono un’insolita influenza: sono molti quelli che, conosciuto Zanoni, decidono di mettere un freno ai propri stravizi, come se la sua sola presenza li elevasse e purificasse. Altri invece muoiono in circostanze poco chiare. Potete ben capire come la povera Viola, cresciuta a pane e Vangelo, non sappia cosa pensare: è forse costui un mago, un fattucchiere in combutta col demonio? O semplicemente mena un po’ sfiga? Tutt’altro: Zanoni è un Rosacroce, un immortale mistico, un saggio caldeo (caldeo?) che, raggiunta la suprema sapienza ormai da secoli, vaga per il mondo aiutando il prossimo. I Rosacroce, si sa, essendo invisibili sono dappertutto: non così la pensava Bulwer-Lytton, e anzi, riduce l’ordine a soli due membri: Zanoni e il suo confratello, mentore e compagno, Mejnour, che dimostra la compassione e il calore di un signor Spock ante litteram. E fin qui. C’è poi un giovane pittore inglese, Clarence Glyndon, che vorrebbe sposare Viola, ma cosa direbbero i suoi amici e parenti in Inghilterra? Per non parlare del suo interesse alle pratiche esoteriche di Zanoni… cosa su cui i suddetti parenti avrebbero ancora più riserve; c’è un francese, Jean Nicot, rivoluzionario in pectore, tanto orrendo nell’aspetto quanto spregevole nei modi (e sappiamo già quale personaggio sarà oggetto delle sue turpi voglie); c’è il nobile Visconti, ultimo rampollo di una famiglia esperta di veleni e pugnalate tra le scapole; c’è la zingara Fillide, alla quale ben si addice quel detto – “Hell has no fury like a woman scorned“… Per farla breve, c’è chi vuole scoprire il segreto di Zanoni; c’è chi brama l’amore di Viola; c’è chi vuole l’una e l’altra cosa; e presto ci ritroviamo in mezzo a una sarabanda di duelli, avvelenamenti, rapimenti, fughe notturne, svenimenti, oscure profezie, fantasmi e apparizioni, come ci si aspetta da un romanzo gotico come si deve. La trama si snoda tra Napoli, la Grecia, l’Inghilterra e la Scozia (“…arrampicati dietro a me, lettore; monta sul mio ippogrifo, mettiti a tuo agio. Comprai la sella da un poeta che ama i suoi comodi…”), per poi finire nella Parigi della Rivoluzione – che l’autore ci presenta come una carneficina infernale; sangue che scorre a fiumi, decapitazioni, torture, inganni e tradimenti (“…e ora, begli spiriti, filosofi, uomini di Stato, patrioti, sognatori… contemplate il millennio per il quale tanto faceste e lavoraste!”); e i protagonisti, i vari Marat, Robespierre e così via, sono mostri uno peggio dell’altro, sia nell’animo che nell’aspetto… Bulwer-Lytton era un aristocratico, dopo tutto – e vede come personaggio principale, come personaggio che si evolve e “impara”, proprio il pittore Clarence; combattuto tra l’amore per Viola e il desiderio di eguagliare Zanoni, diventa discepolo del gelido Mejnour. Il quale lo accoglie nel suo castello, lo istruisce, e ben presto lo lascia con la fatidica frase: “io vado a fare un giro; tu fai il bravo, studia, ma soprattutto, non aprire questa porta per nessun motivo”. Sapete già cosa succede dopo. Diciamo soltanto, per non entrare troppo nei dettagli, che Clarence, all’inizio del romanzo, è un giovane dandy senz’arte nè parte; alla fine, ha i capelli bianchi e il volto di un marinaio che ha girato il mondo. E il Guardiano della Soglia, sia detto di passaggio, è uno dei personaggi più sinistri che abbia mai incontrato. Comunque, permettetemi di lasciare la trama per un attimo e di tornare al sommo poeta, il quale diceva, dopo il senso letterale, che esiste un altro metodo di interpretazione: quello allegorico, “che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna“. Già, perchè se ci facciamo caso, Viola è naturalmente l’immagine dell’Amore, e Zanoni è l’Arte, che eleva lo spirito e, talvolta, rende immortali (e questi due personaggi ci dicono che non esiste arte senza amore, nè, a ben vedere, amore senza arte – anzi, Giordano Bruno nel Sigillum Sigillorum, definiva Arte, Amore, Matematica e Magia i Quattro Principi Rettori – non chiedetemi rettori di cosa perchè di quel libro non ci ho capito una fava, ma mi sembrava una citazione tanto dotta quanto molesta); e Mejnour è, appunto, la Scienza, fredda e spietata; così come Nicot è l’Invidia, Fillide la Lussuria, e così via. Clarence è l’Uomo, siamo noi: sballottati da una parte all’altra, dobbiamo trovare la nostra via senza sapere come… e paghiamo cari i nostri errori. Ci restano, sempre secondo l’interpretazione dantesca, da esaminare il senso morale e quello anagogico, che “significa de le superne cose de l’etternal gloria” – ma per ora può bastare. Whew. Tutto questo ben di dio in un semplice feuilleton gotico? Dì la verità, Max, l’avresti mai detto?


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We need a cleric. Quick!


Stando a quanto leggiamo sui giornali, Gary Gygax è morto. Gary Gygax era l’inventore di Dungeons & Dragons. Avendo passato una considerevole parte della nostra gioventù a giocare con la sua invenzione, possiamo ben dire che ci dispiace. Amen. Riprenderemo prima possibile con le consuete cazzate.


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Dresden Codak!


Segnaliamo, anche solo per vedere se il lettore di feed rss funziona, questo webcomic fantasy -sf- steampunk a base di robottoni giganti, deliri quantistici, astronavi, supercomputer, eccentrici scienziati, supereroi, Carl Jung e Werner Heisenberg. Leggetelo con attenzione, e poi magari ce lo spiegate, perchè sembra abbastanza cervellotico.
Bene così.


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Il Calendario di Frate Cazzaro – Marzo 2008

0803mese “E allora…
e poi… e lui ha detto… che… e io.. e non è… non è così che si fa… e noi… perchè… e quindi… mi sono un po’ incazzato, no? e che.. e allora… gli faccio… faccio un culo così… e mi guarda quello… e io… e.. cosa dovevo fare?… cosa dovevo fare?… e… secondo voi… perchè.. e poi viene fuori un casino… e io lo so e… io.. faccio… aaaaah!”
[Dal discorso di Quelchelè alle Nazioni Unite che fece da preludio alla guerra dei poponi tra la Polonia e la diocesi di Frate Cazzaro]

Flash required

0803calendario Norimberga, 1923! L’esorcismo della Blatta Parlante!
Ad opera di Ludovico Gropello che si introdusse furtivamente nell’appartamento della Blatta col fine di strapparla di malavoglia al regno degli inferi per consegnarla al ferramenta di Bratislava.

Le Babbucce di Zinco
Romanzo in 2648 capitoli di 11 parole ciascuna
– cap. 12 –

La cerimonia fu irrimediabilmente rovinata dalla rissa furibonda che scoppiò all’istante.

S’ode provenir dai colli un vociar di minchioni
“Anzacchera palucheddu! Canisti ca fuca ‘nzucca napalone?”
“Pazzamunnu! Zu pugghiu u ‘zzunu du culleddu!”
“Aaaaah! Cafatarria! Munchiasti u mingherellu!”
“Fucchia!”
“Antrullu. Namu namu.”

E ora, dopo eoni di mesi, gli antichi albugezi ci illuminano con le parole del sapere:
“Hata cincillà
Kanuta Torospo
Cuncussa cincischioni.”
che significa… significa… non saprei.

Saggezza popopoare:
“Una piccola nota di cultura non guasta mai.
Ma è con le cazzate che si costruisce il mondo.”

E ora la rubrica più lunga che si sia mai vista sul calendario di Frate Cazzaro.
No, ora non mi va…

0803semina

Il Santo del mese.

B. V. Madonna dai Denti a Sciabola: protettrice dei serial killer e dei venditori di auto usate, questa leggiadra pulzella è passata alla Storia e alla Santità per il suo carattere dolce ed equilibrato e la sua tendenza a sbranare chiunque le si avvicinasse. E’ ben noto l’episodio de “il massacro di viale Piceno” in cui la soave fanciulla venne attirata fuori casa da un Testimone di Geova, che venne prontamente divorato assieme a un decina di passanti, due cani, 32 piccioni, tre motorini e una scolaresca di orfani ciechi.

0803santo Ordini dall’alto

[…] egli, accerchiato da ogni lato, si piantò la spada in corpo, preferendo morire nobilmente piuttosto che divenire schiavo degli empi e subire insulti indegni della sua nobiltà. Non avendo però portato a segno il colpo per la fretta della lotta, mentre la folla premeva fuori delle porte, salì coraggiosamente sulle mura e si lasciò cadere a precipizio sulla folla con gesto da prode. Essi lo scansarono immediatamente lasciando uno spazio libero ed egli cadde in mezzo allo spazio vuoto. Poiché respirava ancora, con l’animo infiammato, si alzò, mentre il sangue gli usciva a fiotti e le ferite lo straziavano e, attraversata di corsa la folla, salì su di un tratto di roccia, ormai completamente esague; si trappò gli intestini e prendendoli con le mani li gettò contro la folla; morì in tal modo invocando il Signore della vita e dello spirito perché di nuovo glieli restituisse.

Maccabei II 14, 37


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…e allora andammo dalla figlia del Minotauro


…che non è il titolo di un libro ma di questo curioso dipinto di Leonora Carrington – scrittrice oltre che pittrice, classe 1917, di cui gli Accademici della Fuffa già si sono occupati, qui – dipinto, comunque, che fa bella mostra di sè sulla copertina del Libro dei Mostri, di J. Rodolfo Wilcock. Come vedete, tutto torna. Trattasi, per tornare ai nostri mostri, di una surreale raccolta di biografie, brevi e fulminanti, di una o due paginette, di personaggi assurdi, strani, mostruosi in senso metaforico o letterale; posti (nel senso di “sistemati”, non di “luoghi”) per giunta in un contesto quotidiano e normale, di gente che potremmo incontrare per strada o al bar. Tipo l’ufficiale postale Frenio Guiscardi, che è “un ammasso di peli, lana e bambagia, di forma genericamente sferica, ma con gli anni si è molto allentato e sembra talvolta sul punto di disfarsi, soprattutto quando lo porta il vento. Ma quel che in lui è straordinario è l’istinto dell’ orientamento, che gli permette di migrare anche in condizioni meteorologiche proibitive”. Ci sono poi scrittori tentacolati e giovanotti illusori; diavoli comunisti e uomini coperti di specchi; cardinali rinchiusi in blocchi di plexiglas e falegnami ovipari; un avvocato liquido, che vive in piscina, e un cavaliere mummificato ma non per questo morto, che giace in un sarcofago ascoltando musica pop. Come vedete, ce n’è in abbondanza per i cultori del bizzarro e per i collezionisti di ca**ate: una galleria onirica e vagamente inquietante, a volte poetica, a volte grottesca, degna di Tim Burton o meglio di Lynch. Simile nell’idea ma non nel risultato finale è Vite brevi di idioti, di Ermanno Cavazzoni. Gli idioti, diceva Ambrose Bierce (lo scrittore rapito dagli Ufo in Messico, non so se avete presente), sono quella “grande e potente tribù che nel corso dei secoli ha sempre esercitato un dominio assoluto sulle vicende umane”, e qui ce n’è un vasto campionario. Sono “Vite brevi” non per numero di anni, ma per le parole che bastano a raccontarle: vite inutili, sprecate, di poveri cristi, mentecatti, lunatici, malati di mente, suicidi, emarginati. E anche quando le storie di questi idioti sono così assurde da essere divertenti (tipo la biografia di Cesare Lombroso con i suoi demenziali studi sulla pesatura dei criminali) c’è sempre in sottofondo un senso di desolazione, di spreco, di vuoto. Soffocante.


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