Tre Versioni di Pan

Uno: Il Grande Dio Pan

pan«La storia, cito da Wikipedia, narra la vicenda di una donna la cui mente viene distrutta da un esperimento scientifico nel tentativo di metterla in contatto con il dio Pan; anni dopo, la giovane Helen Vaughan fa la sua comparsa nella società di Londra lasciandosi dietro una scia di cuori infranti e suicidi d’amore».
Lovecraft considerava Il Grande Dio Pan, di Arthur Machen, come uno dei capolavori della letteratura orrorifica; ma Lovecraft è noto come il Visionario di Providence, e non come il Critico Letterario di Providence, per cui non ho problemi a dire che, insomma, se questo è un capolavoro del genere, figuriamoci il resto. Comunque sia, posso dire che di certo il G.D.P. è un capolavoro di understatement, ovvero, di quel modo, tipicamente britannico, di sottostimare qualcosa fino alla soglia dell’inverosimile (roba tipo «Io sono venuto per portarvi via. Io sono la Morte.» «Beh, questo rattrista un po’ la serata, non trovate?»).
Tutto il romanzo si svolge, se così si può dire, per interposta persona. Niente o quasi ci viene mostrato nel momento in cui succede, ma di solito ci sono due gentiluomini al club che si raccontano la rava e la fava e se ci va bene uno dei due è stato testimone di fatti orrendi e misteriosi, altrimenti riferisce un fatto capitato al cugino o qualcosa del genere. Verso la metà del cominci a chiederti se per caso non ci sia un deliberato sforzo per mettere una specie di sordina alla faccenda, forse per evitare che la psiche del lettore, travolta da cotanto abisso di orrore cosmico & non-euclideo, si sbricioli miseramente riducendolo a un decerebrato idiota. Forse. Ma magari anche no. Quando le losche trame della signorina Vaughan vengono alla luce – le sue tresche, i suoi comportamenti promiscui e la sua propensione a organizzare orge pagane nei placidi boschi del Galles – uno dei protagonisti, o per meglio dire, dei narratori, decide di porre un freno alle sue scellerate imprese. E quindi, seduto al club con un bicchiere di brandy, svela al suo interlocutore le sue intenzioni: andrà a casa della signorina Vaughan e le dirà qualcosa del tipo: «Lei, cara signora, e uso questo termine nella più ampia accezione possibile, è una creatura demoniaca proveniente da un’altra dimensione, e ciò è intollerabile. Per cui ho portato con me un po’ di corda e, non appena avrò trovato una trave abbastanza robusta, conto che mi aiuterà a risolvere la faccenda senza turbare troppo il vicinato». Segue una lettera di un medico, personaggio fino a quel momento sconosciuto, che afferma di avere esaminato il cadavere e di non poter affermare con certezza che fosse un essere umano. Fine.
Mah.

Due: Pan

«Pan», di Francesco Dimitri, è ambientato a Roma ai giorni nostri; narra dello scontro tra il dio Pan, appunto, un mezzo tra il Peter Pan di Barrie e Shiva il Divoratore di Mondi, e il discordiano Greyface, dio patrono dei benpensanti, delle regole, della banalità quotidiana e del Moige (personaggio che, nonostante la descrizione sia ben diversa, non riesco a non immaginare come assai simile a Bruno Vespa). Non potrei, neanche in millanta anni, far di meglio di questa recensione ad opera dell’abile Gamberetta, cui vi rimando per trama, personaggi, atmosfera e quant’altro. Mi limito ad alcune riflessioni. Del tipo:

  • E’ un libro entusiasmante, nel senso che si prende e non si mette giù finchè non è finito; magia, mazzate come se piovessero, sesso a carrettate, musica, satiri e ninfe, mostri orrendi e umani anche peggio.
  • E’ un libro che parla di occultismo e magia, ed è scritto da uno che a quanto pare se ne intende; certi passaggi, in effetti, sembrano istruzioni date al lettore più che semplici frammenti di trama – e chissà che succederebbe a metterli in pratica.
  • E’ un libro scritto da uno che si vede lontano un miglio che è cresciuto coi giochi di ruolo, e come China Mièville insegna, è una buona cosa per uno scrittore fantasy. Anche se il tamarrissimo Dagon, lo sciamano punk, è il classico caso di personaggio del Master che entra come PNG e risulta più forte di tutto il resto della compagnia (se non sapete cos’è un PNG, è un termine esoterico utilizzato dai giocatori di ruolo nelle loro evocazioni sataniche – o qualcosa del genere).
  • E’ un libro punk, chiassoso e liberatorio, di quelli che ti fanno prudere le mani e venir voglia di scendere in strada e spaccare qualche cosa.
  • E’ un libro molto più serio di quel che sembra – ma non è un libro che si prende troppo sul serio. E’ ciò è bene.

Tre: Peter Pan
Arrivato in un modo o nell’altro alla mia veneranda età senza aver letto l’originale Peter Pan di J. M. Barrie, ho deciso di colmare questa intollerabile lacuna e di leggerlo in inglese, perchè libri come questo vanno letti in inglese. Son cose. Mi aspettavo quel bel minestrone di ciccinerie assortite e stucchevoli pinzillacchere (che bell’espressione, eh?) cui ci hanno abituato Walt Disney, Steven Spielberg (Hook, mioddìo, l’ho pure visto al cinema) e chiunque abbia inventato la Sindrome di Peter Pan che ogni due per tre ci scassa la minchia col suo corteo di bamboccioni spensierati e simili amenità.
E invece.
E invece l’aggettivo che secondo me meglio descrive Peter Pan è “inquietante”. Non Peter Pan come persona, intendo. Perchè la storia inizia garrula e lieta come ben sappiamo, con la polvere di fate, coi bimbi che volteggiano attorno al lampadario, con Peter che perde l’ombra e Wendy che gliela cuce ai piedi. Aspetta un attimo. Alle scarpe, vorrai dire. No, ai piedi. Con ago e filo. E Peter «strinse i denti e non pianse». Ewww.
Poi veniamo a sapere che Peter va in cerca di nuovi Bambini Perduti da portare nell’Isola che non c’è… per rimpiazzare quelli che vengono uccisi dai pirati. Uccisi. *Glom* (la legnosissima versione italiana della Biblioteca Ideale Tascabile dice “eliminati”, come nei cartoni di Dragonball). Se un qualunque scrittore per ragazzi, oggi, osasse presentare a un editore un libro in cui compare la parola “uccisi” verrebbe cacciato a pedate.
Poi Campanellino tenta di avvelenare Wendy, per una squallida questione di gelosia.
Poi veniamo a sapere che Peter Pan è tormentato di notte da orrendi incubi: grida, piange, trema, scalcia, spacca i mobili e strappa le coperte – e al mattino ha dimenticato tutto.
Ma il colpo di grazia è verso il finale, quando Wendy e i fratelli, tornati a casa, a Londra, dopo un anno o giù di lì incontrano nuovamente Peter e si mettono a chiacchierare sui bei tempi andati: l’Isola, gli indiani, il coccodrillo, i pirati, Giacomo Uncino…

«Chi è il capitano Uncino?» egli domandò con interesse quando lei gli parlò del grande nemico.
«Non ti ricordi,» gli domandò stupefatta, «di come lo hai ucciso salvando le nostre vite?»
«Appena li ho uccisi li dimentico».

TA-DAM! Neanche fosse Bruce Willis.
Peter Pan è Pan: Pan è Dioniso, e Dioniso è Shiva, il Distruttore, il dio delle bestie e delle foreste. E da Pan deriva Panico: ecco perchè questo bimbo tanto carino ci fa venire i brividi: perchè non è umano, perchè è il dio dell’eterno rinnovamento, il dio del fuoco e delle lacrime, del riso e della danza; ed è un bambino non perchè si sia cristallizzato rifiutandosi di crescere, ma perchè in ogni momento si dissolve e rinasce, senza passato, senza futuro, sempre uguale e sempre diverso. A pensarci bene, è angosciante; era questo che Machen cercava di dire (senza riuscirci, almeno secondo me) nel suo romanzo; è questo che fa capire ai personaggi del romanzo di Dimitri che schierarsi con Pan è folle tanto quanto schierarsi col suo nemico; ed è per questo che, al termine della storia di Barrie, siamo contenti che i Bambini Perduti riescano a tornare a casa.

Come sempre, si usano a sproposito parole ed espressioni. La Sindrome di Peter Pan. Peter Pan quel tizio che, ancora coi denti da latte scappa di casa, ammazza pirati a coltellate, beve rum e rapisce bambini per insegnar loro a fare altrettanto?
Parliamone.

***

Il «Peter Pan» di Barrie è disponibile aggràtis su Feedboks, ancorchè in inglese. Il «Gran Dio Pan» (che sembra un po’ una bestemmia, detto così, non trovate?) pure. Il «Pan» di Dimitri, come fa notare con notevole aplomb l’autore, si trova con emule.


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6 pensieri profondi su “Tre Versioni di Pan

  1. Nemmeno io ero arrivata a tanto: identificare il leggiadro e svanito (per via della sbadataggine di perdere l’ombra) Peter Pan con il grande Dio Pan e, attraverso le sue innumerevoli prestazioni, addirittura con Shiva, il cardine di tutta la trasformazione.
    Ebbene, – come negarlo? – qualcosa che sotto sotto si muove e li lega c’è. Per fortuna solo i bambini sembrano accorgersene, ma tanto loro, si sa, confondono continuamente la fantasia e la realtà e quindi si muovono con disinvoltura anche tra la vita e la morte…

  2. un altro Pan: James Stephens, La pentola dell’oro.
    (Stephens era dell’82, come James Joyce e anche come mio nonno – e non lo dico per vantarmi ma per amore della verità)

  3. … in effetti come ipotesi può sembrare azzardata, ma dopotutto siamo la Squadra Cazzate, possiamo permettercelo. 😉
    @Marisa: i bambini si muovono con disinvoltura tra la vita e la morte… verissimo. Al che si capisce quanto sia ridicola la pretesa di certi adulti di sterilizzare libri e cartoni animati utilizzando i più demenziali giri di parole per evitare di dire “morte”. Con tutto quel che ne consegue.
    @ Giuliano: Gran bel libro, la Pentola dell’Oro. Grazie per avermelo ricordato, mi hai fatto venir voglia di rileggerlo!

  4. Dio Santo… risuscitate la Fuffademia, siete i migliori critici che si possano trovare!

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