Letteratura Ergodica

Ho scoperto di avere in casa un pajo di libri appartenenti al vasto (?) e curioso (??) filone della letteratura ergodica. Uno è l’I Ching e di esso si è detto fin troppo, per cui soprassediamo. L’altro è Casa di Foglie di M. Danielewsky. Quest’ultimo non è certo un libro che si compra dicendo «Ah! (o qualche altra esclamazione del genere) Ho proprio voglia di leggere un po’ di letteratura ergodica!». E’ piuttosto quel genere di libro che si sfoglia a caso in libreria e si dice (almeno, il fuffologo di professione dice): «Ah! (oppure: Cospettone! Corpo di mille diavoli! Cazzo e ricazzo!) Questo libro devo averlo!» – a prescindere dalla trama. Casa di foglie, infatti, è la storia di un – ma che cos’è la letteratura ergodica? Già. Dice Uichipèdia che “ergodico“, lungi dall’avere significati lubrichi, deriva dal greco “ergon“, lavoro, e “hodos“, percorso. Ovvero si tratta di un testo la cui fruizione richiede un lavoro fisico non triviale per arrivare alla fine. Non triviale: nel senso di superiore al lavoro fisico mediamente necessario per leggere – muovere gli occhi e voltar pagina di tanto in tanto. L’I Ching ne è un esempio, dicevamo: il prossimo capitolo che leggeremo non è quello successivo all’ultimo letto, ma viene determinato da un complesso rituale pagano che richiede bastoncini di millefoglie, monete, danze simboliche, incenso e sacrifici di capre e tori (ok, solo alcune di queste cose). Un altro esempio che si dà è quello di un testo scritto sulle pareti di una stanza, che può essere letto solo andando avanti e indietro da una parete all’altra (perchè mai uno vorrebbe fare una cosa simile, poi, chissà). Riguardo a Casa di Foglie, il fatto che lo sforzo necessario per la lettura non sia triviale è reso palese da alcune pagine dell’edizione inglese che qui riproduco ben sapendo che probabilmente è illegale:

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Ehm.
E in effetti, per quanto sia imbarazzante ammetterlo, non sono andato oltre le prime venticinque pagine. Il fatto è che a) un libro del genere è interessante a prescindere dal fatto che lo si legga da cima a fondo. E’ interessante come oggetto fisico, beninteso, non per il contenuto che anzi, può essere nullo – come il Codex Seraphinianus, il Manoscritto Voynich, le Babbucce di Zinco, le poesie dei futuristi (quelle brum-brum zaaang proot); b) non è detto – anzi, è quasi certo il contrario – che la fatica di arrivare alla fine sia compensata da una storia che vale. E’ già faticoso trovare un libro normale che valga la suddetta fatica, figuriamoci uno che sembra più impegnativo per il lettore che per lo scrittore («Ehi! Volete dire che questa cosa la stiamo leggendo? Credevo la stessimo solo scrivendo!»); c) resta il dubbio che il termine “letteratura ergodica” sia uno di quei giri di parole tipici dei nostri tempi per evitare di chiamare le cose col loro nome. Nel suo fantascientifico capolavoro “Anathem“, Neal Stephenson menziona un linguaggio artificiale, un gergo tecnico-politico-economico-pubblicitario, il Bulshytt (già il nome…) che «utilizza eufemismi, imprecisioni calcolate, ripetizioni sfiancanti e altri sotterfugi retorici per dare l’impressione che si sia detto qualcosa». Resta il dubbio, dunque, che “letteratura ergodica” sia un modo complesso di dire “non si capisce una fava”. Ma magari mi sbaglio – un giorno o l’altro lo leggerò davvero e vi farò sapere. Certo.


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Una profonda riflessione su “Letteratura Ergodica

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