La Strategia dell’Ariete


Sarò onesto, ma questa “Strategia dell’Ariete” non mi ha molto convinto. Come romanzo, perlomeno; perchè infatti si tratta di qualcosa che è un romanzo ma non solo, e quindi il discorso non si limita a quello che si legge. O meglio, se ci si limita a quello che si legge, beh, la “Strategia dell’Ariete” è una mezza delusione. Più che mezza: tre quarti.
Innanzitutto la trama: devo dire che all’alba del terzo millennio la storia del mistero millenario che nasconde il segreto di un potere immenso cui danno la caccia sette segrete, nazisti esoterici e la CIA è un po’ vecchiotta, non dico tanto, ma è dai tempi dei Predatori dell’Arca Perduta che leggiamo storie di misteri millenarî che nascondono il segreto di un potere immenso cui danno la caccia sette segrete, nazisti esoterici e la CIA; forse si poteva trovare qualcosa di più originale, no? Anche se uno dice, “beh, è un clichè letterario, che c’è di male in un clichè letterario?” Nulla, dico io, se è supportato da uno stile accattivante, da buoni personaggi e da dialoghi frizzanti. Un clichè sfruttato bene è una gioia per gli occhi dello stanco lettore: un porto sicuro in cui riposar le sue meningi stremate dalle procelle del viver quotidiano. Ehm. Ma qui tutte queste cose non ci sono. I personaggi sono monodimensionali e fastidiosamente stereotipati: l’inglese alto e allampanato che dice “By Jove!”, l’americano chiassoso e tracotante, il tedesco aristocratico e amorale, il vecchio professore che ha passato la vita a dare la caccia a un mistero millenario che nasconde il segreto di un potere immenso cui danno la caccia sette segrete, nazisti esoterici e la CIA, la bella creola misteriosa che legge i tarocchi, il giapponese spietato e gelido ma di grande spiritualità, il cinese infido e imperscrutabile; insomma, fa molto pulp fiction degli anni ’30 (e per fortuna ci manca l’italiano coi baffi neri e il mandolino). E qui vale lo stesso discorso di prima: non c’è nulla di male in un clichè quando è sfruttato bene, e qui non lo è: questi personaggi, in mano, che so, a Lansdale avrebbero fatto furore, qui no (anche se lo ammetto: il maggiordomo Jarvis è un mito – come i due investigatori sfigati: personaggi però che compaiono solo per una o due pagine e via, cosa che lascia sì vedere che si tratta di un’opera collettiva, ma lascia anche un po’ di amaro in bocca: non si poteva invece far sparire, che so, l’inglese alto e allampanato eccetera? E soprattutto: a chi diamine è venuta l’idea di chiamare dottor Elegnem il folle cerusico egiziano che fa esperimenti sui bambini? No, dico: Elegnem? Mengele al contrario? Ma mi faccia la cortesia!). Per lo stile il discorso è forse più complesso: per alcuni è sciatto e limitato; per altri è invece scorrevole e sintetico; per me è uno stile funzionale alla trama, veloce e semplice ma stranamente “piatto”, con occasionali punte di originalità (tipo i mercenari che si allargano in formazione “come ali di manta”) che suonano sempre un po’ fuori luogo. Non so dire se sia, come stile, buono o cattivo; di certo non è il mio stile, anche perchè, così secco e sintetico, non aiuta a collocare la storia al suo posto: non si riesce, (almeno: io non riesco) a immaginare la prima metà del secolo in cui la storia è ambientata: i dialoghi sono da CSI, i commando sono da operazione Tempesta nel Deserto, e si sente la mancanza di un non so che, di un tocco di retrò che avrebbe reso la storia più solida e godibile. Insomma: il paragone che tutti si sentono portati a fare è con Q di Luther Blissett (poi Wu Ming): romanzo collettivo, ambientazione storica, cupo e tormentato, critica politica, pseudonimo orientaleggiante – ma è un paragone che regge poco; nel senso che Q è un gran bel romanzo, mentre la SdA è – beh, dipende: può essere un dignitoso esempio di fan-fiction, di quelle che si trovano a milioni in rete; oppure, per chi come me vede sempre il bicchiere mezzo pieno, un buon esempio, per quanto ancora da perfezionare, di quello che potrebbe essere un nuovo modo di intendere la letteratura di consumo: innanzitutto l’aspetto collettivo; poi l’utilizzo di forme alternative al copyright (che ci stanno sempre bene): e poi la presenza sul sito di Kai Zen di storie parallele, capitoli aggiuntivi, altri personaggi e ambientazioni, spiegazioni e background. In quest’ottica, la SdA diventa una specie di metaromanzo, più simile a un manuale di ambientazione di un gioco di ruolo, dove il lettore/giocatore è chiamato a collaborare e a inventare nuove storie o nuove spiegazioni. Questo è il vero punto di forza della SdA: così intesa è più di quello che si legge, e si potrebbe dire: per fortuna. Il prossimo lavoro di questi baldi giovini dovrebbe essere un romanzo collettivo rosa ambientato ai tempi del Risorgimento: attendiamo con ansia.


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