La Città del Re Leucrotta – Cap. III

Torna a Casa, Vronch!

Vronch era il tipico coboldo da romanzo fantasy, ma non aveva però quel portamento cascante, molle, snervato che si osserva in quasi tutti gli abitanti dei sotterranei e che produce su noi una pessima impressione. O meglio, aveva imparato a nasconderlo perfettamente quando c’erano estranei in giro.
Era un coboldo piuttosto alto, ancora vigoroso malgrado gli anni e gli stravizi, dall’ampia pancia da birra e dalle braccine piene di cicatrici che indicavano il coboldo costretto a maneggiare la pesante spada dei comandanti.
Aveva invece, al pari dei suoi compatrioti, la tinta della pelle olivastra con indefinibili sfumature rossastre, la fronte stretta e sfuggente, le labbra grosse e rosse e i denti aguzzi. Ma i suoi occhi non erano smorti, piccoli, senza fuoco, col bulbo quasi interamente giallo: erano invece due infidi occhi neri, dal lampo astuto e traditore, che anche un Occhio Fluttuante gli avrebbe invidiato, prima di mangiarselo. Vronch si era creata una posizione altissima, esclusivamente col proprio valore, che per un coboldo significa: col tradimento, l’adulazione e il complotto. Di temperamento pusillanime e vigliacco, era entrato giovanissimo nell’esercito, pensando che forse sarebbe stato quello l’unico mezzo per raggiungere una posizione elevata, giacché suo padre, un modesto svuotatore di pozzi neri, non gli aveva lasciato che poche ore di vantaggio prima di corrergli dietro con il forcone. Il giovane, che come i suoi compatrioti, aveva la brutta fama di essere codardo e fannullone, si era fatto subito largo, distinguendosi in parecchi scontri, risse e accoltellamenti, poiché il Fethrund era allora in guerra cogli stati vicini.
A trent’anni, dopo aver respinto e battuto sanguinosamente gli Uomini-Pinguino di Oeban, che erano tre volte superiori di numero e peso corporeo, ma a quelle latitudini il calore li mandava in delirio, aveva già ricevuto dal re la prima scatola di ghisa per conservare il fango, distintivo di nobiltà, giacché nel Fethrund la nobiltà non è ereditaria e il fango neppure. A trentacinque, già generale, dopo aver battuto le truppe Uruthesi che avevano già varcato le frontiere, con l’uso sapiente di alcolici avvelenati e coperte infettate col vaiolo, aveva ricevuto la seconda, più grande e più elegante, ed il cucchiaio d’oro con fiori e pesci cesellati da infilare nel nastro del cappello, e poi la terza, ancora più grande, che poteva contenere sei galloni di fango e gli conferiva il titolo di orag, ossia di Grande Personaggio.
Cessate le guerre, il valoroso generale si era ritirato come privato cittadino nella sua natia Kuglurg, per godersi finalmente un po’ di tranquillità e crearsi una famiglia prima di diventare troppo vecchio.
Re Woorplah invece, che non aveva dimenticato i servigi resi alla patria dal prode generale, lo aveva poco dopo chiamato alla corte, creandolo ministro della sua casa prima, poi ministro della corte dei Sacri Mostri Candidi, la carica più alta e più invidiata da tutti i notabili coboldi.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Vronch, in preda al panico, si allontanò quasi di corsa dal palazzo reale, camminando come un ebbro intossicato dal fango, cogli occhi stralunati e la lingua penzoloni, seguendo la riva fangosa del Fulukh, la famosa fogna a cielo aperto le cui acque pestilenziali riflettevano vagamente le ultime luci del crepuscolo. Kuglurg è la principale città del Fethrund dopo la decadenza di Gaglarup, l’antica capitale dello stato, lasciata deperire per un capriccio inesplicabile dei monarchi Fethrundesi, i quali, al pari di quelli Uruth, amano sovente abbandonare le grandi città per dare splendore ad altre minori, o almeno così facevano prima dell’invenzione delle fogne. Kuglurg, quantunque salita agli onori di città da poco più di un secolo, ha oggi, compresi i sobborghi, quasi quaranta chilometri di sviluppo e tre milioni di abitanti, tra coboldi, goblin, gnoll, bugbear, uomini-talpa e spiriti maligni di vario genere e gode fama di essere opulenta, ripugnante e inespugnabile.
Ed infatti Gib-Hurplurgon-Orlblin-Rograug-Goolurg-Agh, come la chiamano i coboldi, che ci tengono ai nomi lunghissimi, significa “la grande fighissima regal città degli angeli, la bella e la inespugnabile che neanche te la immagini”, anche se non potrebbe resistere un’ora sola al fuoco d’una delle moderne corazzate naniche, quantunque, per renderla imprendibile, i cobodi abbiano bagnato le fondamenta delle sue porte con sangue di troll. La città sorge sopra alcune isolette fangose, divise in due gruppi da un braccio principale del Fulukh. La città che si estende sulla riva destra del fiume non è che una accozzaglia di casupole; quella che s’innalza sulla sinistra è veramente una magnifica accozzaglia di casupole ma contiene, cinta da mura merlate con torri e bastioni, la parte nobile e ricca della città, dove vi si agglomerano, non si sa come, non meno di seicentomila abitanti. È là che sorge il palazzo reale, dinanzi a cui tutti i passanti devono affrettarsi e aprire l’ombrello, per non correre il pericolo di vedersi fatti bersaglio da fetentissime pallottole di fango, saliva e muco, che le guardie sputano dagli spalti con ammirabile maestria.
Ed è pure là che s’innalzano la grandiosa piramide di Quolghap-Khur, che lancia la sua cima a oltre venti metri, edificio ammirabile per le sue linee architettoniche psichedeliche e sotto la cui mole si crede siano sepolte le reliquie preziose di Krustulas; i templi grandiosi dei talponi, coi loro tre metri di altezza, coperti di guano di avvoltoio i cui vapori, ai raggi del sole maggiore, sono visibili e annusabili fin dall’altra riva del Fulukh; la pagoda di Dzarr-Dzaurekh colle sue magnifiche porte di ghisa ad intarsi di ossi di seppia, scolpite e lavorate con un’arte che fortunatamente non ha l’eguale, colle sue colonne e coi suoi tetti coperti di peltro ed eternit, che sono costati somme favolose; ed è là, finalmente, che si ammira il Gran Tempio di Irrae-Slibup che racchiude una colossale statua di Braazor, ossia di Krustulas, ovvero Uthma-Thrang, tutta coperta d’oro e d’un valore inestimabile.
Vronch, sempre guardingo, continuava a seguire la riva del fiume, diretto alle porte della città, insensibile alla pittoresca grandiosità di quel superbo corso d’acqua, che vince tutti gli altri in fetore e squallore. Migliaia e migliaia di case galleggianti già illuminate, ormeggiate alla riva da grosse gomene rosicchiate dai topi e tenute a galla da enormi fasci di bambù legati a cento a cento, ondulavano graziosamente, scricchiolando, mentre nell’interno si udivano imprecazioni, grida e litigi di snotling e voci di anziani coboldi in preda al beri-beri. Ondate di fumo denso e acre sfuggivano dai camini e fuochi multicolori brillavano sulle zattere e dentro le case terrestri o galleggianti: alcune, già in preda alle fiamme, venivano lasciate andare alla deriva tra lo scherno dei passanti, mentre la fresca brezza notturna che veniva dal mare portava fino alla riva i mille inverosimili odori delle cucine.
Vronch seguì il fiume, finché ebbe oltrepassato tutta la città galleggiante, urtando di frequente qualche passante; e scese verso i quartieri bassi, camminando sempre come un sonnambulo, finché giunse in un luogo deserto, dove si vedevano scintillare nelle tenebre dei fuochi giganteschi. Degli gnoll seminudi, armati di lunghe picche, s’aggiravano ridacchiando come invasati intorno a quei fuochi, ora apparendo alla vivida luce della fiamma ed ora scomparendo fra le ondate di fumo denso, mentre dall’alto calavano pesantemente stormi di sinistri avvoltoi neri. Grossi e viscidi vermi-iena si aggiravano sulle loro zampette, tastando il terreno in cerca di cibo. Quel luogo era la necropoli di Kuglurg; accanto sorgeva il tempio di Huglurek, il dio dei morti, il Portinaio dell’Inferno dalla testa di iena; e quegli gnoll bruciavano i cadaveri delle persone morte nella giornata. Vronch si fermò, quasi sorpreso di trovarsi in quel luogo funebre, e guardò con malcelato timore quelle fiamme che facevano crepitare le carni dei cadaveri, spinti dai crematori sui tizzoni ardenti.
Una voce lo trasse da quella contemplazione, facendolo saltare come una molla.
«Padrone, che cosa fai qui?»
Era Fang, il quale da lontano lo aveva seguito, spaventato dall’aspetto tetro dell’ormai ex-generale, e timoroso che volesse svignarsela senza di lui. Vronch si voltò senza rispondere, soffocando un’imprecazione.
«Che cosa vieni a fare qui, padrone?» chiese nuovamente il servo. «Non è qui la tua casa.»
«Non lo so,» rispose Vronch. «Camminavo… ehm… senza vedere né sapere dove andassi, capisci, e mi sono trovato, tipo, fra questi morti. Una cosa del genere. Sarà stato il fango, capisci. Triste presagio. Quegli avvoltoi», aggiunse con un gesto teatrale, «piluccheranno ben presto anche il mio cadavere, giacché io non sono coboldo da sopravvivere alla disgrazia che mi ha colpito. Ahimè, ahimè. La mia morte calmerà la collera del re e salverà dalla schiavitù mia nonna.»
«Scaccia questi funebri pensieri, mio padrone,» disse Fang, che sapeva farsi venire le lacrime agli occhi a comando. «Forse la tua innocenza verrà un giorno riconosciuta e potrai tornare ministro. Pensa quale dolore proverebbe la veneranda Ukhurra, se tu morissi.»
«Mia nonna ha nelle vene sangue di vampiro, di tarrasque e di scarabeo urticante. Sai che gliene frega. Perché anche sua madre era figlia d’un prode condottiero, e non passa giorno che non me lo rammenti, gli dèi la conservino sotto sale. Saprà rassegnarsi alla sua sventura. No » continuò, «Vronch non sopravviverà alla sua disgrazia. Che cosa diverrei io domani, accusato di aver fatto morire i bianchi protettori del regno, i Sacri Baldench? Un miserabile in patria, disprezzato dai nobili e dal popolino, esecrato dagli onesti, inviso agli stessi delinquenti; un essere maledetto. Ptui» concluse, sputando per terra.
«Tu che hai salvato il regno dalle invasioni degli Yeek e degli Uruth e che hai domato i miei compatrioti? O mio signore!»
«È passato troppo tempo da allora,» rispose Vronch con voce cupa. «Vattene ora, mio fido Fang. Lascia che qui si compia il mio destino. »
«Vieni a casa, padrone: nonna Ukhurra, non vedendoti, sarà inquieta, e sai che se si incazza è la fine.»
Vronch soffocò un gemito e si lasciò condurre da Fang, senza più opporre resistenza.
Risalirono trattenendo il fiato la riva del fiume, ritornando nei quartieri più centrali, costituiti non più da capanne, bensì da casette più decorose, e che, quantunque esteriormente non offrano nulla di interessante, poco hanno da invidiare ai tanto decantati dungeon di Dordyleir. Sono piccoli lavori d’architettura tipicamente cobolda, colle travature graziosamente scolpite, con porte doppie e persiane variopinte che durante il giorno si tengono alzate, onde si possa vedere l’altare di Krustulas; e sono circondate da una larga e comoda veranda dalla ringhiera elegantissima, piena di poltroncine di legno e di vasi contenenti arbusti tagliati in forma d’animali più o meno fantastici. Almeno in teoria: in pratica, le imposte erano cadenti, gli arbusti soffocati dalle erbacce, la veranda inutilizzabile e le mura esterne ricoperte fino al tetto di graffiti osceni e da ogni sorta di sporcizia. Ma si sa, ai coboldi piace così.
«Ci siamo, padrone,» disse Fang.
Il generale, che pareva si fosse allora risvegliato da un triste sogno per precipitare in un incubo sanguinolento, alzò gli occhi verso la veranda che la prima luna, allora sorta, illuminava, facendo scintillare dei grandi vasi di porcellana scheggiati e pieni di melma, in cui crescevano peonie carnivore e muffe multicolori.
«Ah!» biascicò. «E Ukhurra?»
«Ti aspetterà nella sala da pranzo.»
Con una mossa lenta, quasi automatica, Vronch aperse la porta incrostata e salì lentamente alcuni gradini, poi percorse un corridoio ed entrò in una stanza a pianterreno, illuminata da una grande lampada dorata, che proiettava sulle pareti e sul pavimento di legno, una luce scialba e dolce come quella di un fuoco di gas di palude.
Vi erano pochi mobili, tutti antichi ma scheggiati, malmessi e rosi dai tarli. Una tavola era già apparecchiata, con tondi e vassoi di piombo cesellato, delle sedie dalla spalliera assai inclinata, delle mensole sostenenti vasi, pieni di peonie carnivore color fuoco, dei tavolini laccati da uno strato di unto spesso un dito, ed incrostati di tappi di bottiglia e gusci di pistacchi, coperti di ninnoli, di vasetti, di bottigliette contenenti forse degli stupefacenti o degli unguenti improponibili, di pallottole d’avorio traforato e di piccole statue di bronzo e d’oro raffiguranti Krustulas.
«Dov’è Ukhurra?» chiese il generale, lasciandosi cadere in una poltrona. «Dov’è il vino, cazzo?»
Una voce stridula, potentissima, si fece subito udire dietro le tende che si gonfiavano sotto i soffi lutulenti dell’aria notturna. Disse: «Che cazzo ci hai da startene lì come un’ameba paglierina, razza di finocchiaccio che non sei altro? Dritto con la schiena!»
Era Ukhurra.


Condividi questa opera dell'ingegno umano!
facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail



2 pensieri profondi su “La Città del Re Leucrotta – Cap. III

  1. “esecrato dagli onesti, inviso agli stessi delinquenti”
    Lo diceva Basettoni in Topolino e il furto di monna gigia :)

  2. Non mi ricordavo la storia precisa, ma la citazione è indubbiamente basettoniana. Sono letture che formano il carattere, nevvero? 😉

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Sito

This blog is kept spam free by WP-SpamFree.