La Città del Re Leucrotta – Cap. IV

Ukhurra

 

La nonna del vincitore degli Uruth e degli Yeek aveva una figura imponente, pesante come un menhir, aggraziata come un troll di palude; una testa enorme, un viso dai lineamenti raccapriccianti perfino per un coboldo, una bocca da squalo, occhi nerissimi e lampeggianti come tizzoni d’Acheronte, leggermente strabici. La capigliatura, grigia e ispida come fil di ferro, le cadeva in grottesco disordine sull’informe veste di tela nera a ricami d’oro, raffiguranti scene infernali; la pelle, quasi mai esposta al sole (si diceva che sarebbe esplosa), era coriacea e grigiastra, con sfumature che ricordavano certi riflessi dei succhi gastrici; aveva le braccia nude e adorne di grotteschi tatuaggi, e i piedi racchiusi in zoccoli chiodati con ricami di perle, così grossi da poter reggere vittoriosamente il confronto con quelli tanto decantati delle donne naniche.
«Nulla, nulla, nonnina mia,» rantolò il disgraziato generale, risollevandosi con uno spasmo. «Sono semplicemente preoccupato… ehm… per la, diciamo, malattia, del Baldench.»
«Non dire cazzate! Tu stai male e sei oppresso da qualche cosa di più grave d’una preoccupazione. Non è che mi stai nascondendo qualcosa?» disse la vecchia.
«No, non è nulla. Giuro. Davvero. Parola di coboldo.»
«Ci pulisco il culo del mio leucrotta, con la tua parola. È dunque gravemente ammalato, l’ultimo dei Baldench?» chiese Ukhurra.
«È un po’ triste, tuttavia nulla, ehm, di grave. È un po’ costipato. Sai, i dolcetti di scarabeo….»
«E se muore? Finiresti a spasso, eh?»
«Non vi è alcun pericolo, ehm, per ora. Ma parliamo d’altro! Che fame! Faccio portare la cena, eh? E poi subito a nanna! Domani questa stanchezza sarà scomparsa. Eh, si!»
La vecchia percosse con un martelletto di legno uno dei servitori, che fuggì per tornare poco dopo portando, su grandi vassoi di piombo, parecchi tondi pieni di brodaglie fumanti, di frutta fermentata e di tuberi di varie specie.
Il coboldo medio si nutre ordinariamente al pari dello snotling e dello yeek di enormi quantità di qualsiasi cosa, purchè condita con un miscuglio puzzolente che somiglia, in peggio, alla polvere da sparo, composto di gamberetti di palude lasciati prima putrefare al sole per settimane e di parecchie erbe e droghe fortissime. Non sdegna però, specialmente il coboldo campagnolo, i ratti, le lucertole, le locuste, i vermi-iena, gli halfling, il budino nero e i nani di fosso. In ciò è eguale, per gusto, al goblin.
I ricchi preferiscono invece carne di iguana o di elfo, fresca o salata che si vende in quantità prodigiose sul mercato galleggiante di Kuglurg, i funghi urlatori, i fagiolini della morte, che nonostante il nome sono squisiti conditi con grasso di serpente; raramente invece mangiano goblin e quasi mai carni d’altri coboldi, perché la loro religione proibisce di ucciderli, quantunque permetta loro di mangiarne se uccisi da altri che non siano coboldi.
Vronch, che voleva nascondere le sue angosce e anche il tristo disegno che aveva preso forma nella sua mente, si mise ad assaggiare le vivande portate, inaffiandole abbondantemente con tazze colme di kench, un liquore distillato dal cervello di gremlin, mescolato a calce e a canna da zucchero, che i coboldi pretendono sia atto a riparare le energie fisiche estenuate dalla continua traspirazione, nonostante i gravi danni cerebrali che provoca. Il disgraziato cercava di stordirsi e di acquistare un’allegria fittizia, visto che di fare ubriacar la nonna non c’era verso: ci sarebbe voluto tutto il letto del Fulukh, se il Fulukh fosse stato vino. O trielina.
Terminato il pasto, si fece portare la scatola di ghisa regalatagli dal re, piena di noci di brung e di fango con un po’ di calce. Si mise a masticare lentamente quel miscuglio piccante, che annerisce i denti e che fa sputar saliva color del sangue, regolarmente sul pavimento, mentre preparava il tè per sé e per l’arcigna vecchietta, versandolo in microscopiche chicchere di porcellana, sulle quali era dipinto, nello stile nazionale, il paradiso dei coboldi colle falangi degli dèì, i troni celesti e l’immensa palude fatiscente dove i coboldi si sarebbero radunati alla fine dei tempi. Approfittando di un attimo di distrazione della vecchia, versò nella sua tazzina alcune gocce di un liquido incolore.
«Mia dolce nonnina,» disse ad un tratto il generale, che da alcuni minuti sembrava ricaduto nei suoi biechi pensieri; in realtà stava aspettando il giusto momento. «Tu hai compiuto già da tre settimane i tuoi ottanta anni, e anch’io non sono più un giovincello, e potrebbe da un momento all’altro capitare qualche disgrazia. Non a te, certo che no, però, sai… non si sa mai…»
«Che cosa dici, deficiente? Quali neri pensieri turbano questa sera il tuo cervello? Sei di nuovo ubriaco? Vado a prendere la mazza da cricket.»
«No! Aspetta, aspetta,» rispose il generale, mentre la vecchia accennava goffamente ad alzarsi. «Prendo precauzioni, in vista di certi avvenimenti che potrebbero verificarsi. Ma anche no, voglio dire.»
«Adesso mi sto incazzando. Cosa c’è sotto?»
«Niente! Niente, nulla davvero, Ukhurra. Giuro su una montagna di ossa sacre e benedette dai Santi Asceti del Monte Periglioso.»
«Si fottano gli asceti. Che cosa vuoi concludere, allora?», ringhiò la vecchia con voce impastata.
«Che alla mia età, ehm, forse… dovrei sapere dove si trovano le, ehm, ricchezze, capisci, che un giorno mi dovranno spettare in… eredità. » Istintivamente, si coprì la testa con le mani.
«All’estremità del nostro giardino», biascicò la vecchia, con lo sguardo perso nel vuoto. «In un forziere che io ho immerso nella vasca, si trovano rinchiuse tutte le gioie della famiglia e le verghe d’oro che ho accumulato in tanti anni di economia. Vi è là dentro tanto da farti ricco, anche se non te lo meriti, maledetto te e chi ti ha generato… Giacché, nei saccheggi delle città Yeek e Uruthesi, al nonno è toccata una fortuna considerevole. Nessuno sa che le mie ricchezze si trovino immerse in quel bacino, che è guardato da due gaviali onde garantirle dai ladri. Ecco quello che volevi sapere. Ti vada tutto in medicine.»
In lontananza, i messi del palazzo reale chiamavano rumorosamente, invitando gli abitanti della città a spegnere i lumi ed a coricarsi: «A letto, ubriaconi, o vi si dà un sacco di legnate!». «Vafanculo! », rispondevano dalle case galleggianti. Sarebbero andati avanti tutta la notte.
Vronch si alzò di scatto. «È tardi,» disse con voce ferma. «Le ombre dei morti lasciano il cielo e scendono sulla terra. Va’ a coricarti mia dolce nonnina. Sarai sicuramente stanca», aggiunse mellifluo.
S’accostò alla vecchia, che lo guardava in cagnesco, la fissò un momento, poi le depose un bacio sulla fronte.
«Vai, vai» le disse, evitando con un balzo gli artigli della megera «Io avrò ancora da fare un po’ prima di coricarmi. Devo… ehm, sistemare i conti. Sai, la tassa sui rifiuti, il commercialista, tutte quelle cose lì.»
Mentre Ukhurra si ritirava barcollando nella sua stanza, Vronch uscì sulla veranda, aspirando avidamente l’aria fresca della notte.
Il Fulukh, illuminato dalle lune salite ormai in cielo, svolgeva la sua immensa, putrida curva mucillaginosa, come se le sue acque fossero brodo di iguana, scorrendo fra la moltitudine di case galleggianti e mormorando astiosamente, in un incessante scricchiolio di zattere e di barche che si alzavano per la marea montante.
I lumi delle case acquatiche a poco a poco si spegnevano e le canzoni dei battellieri ubriachi morivano sulla superficie dell’immenso fiume, mentre lontano lontano echeggiavano ancora i dolcissimi richiami d’un troll in amore.
La città s’addormentava a poco a poco, mentre la prima luna saliva sempre fra miriadi di stelle scintillanti in un cielo purissimo, facendo balenare i tetti dorati dei palazzi e le ardite punte delle piramidi gigantesche; e la brezza notturna faceva tintinnare i campanelluzzi dei talponi, e tremolare le immense foglie degli alberi di poponi che servivano di sfondo a quel superbo quadro.
Vronch, appoggiato alla balaustrata della veranda, pericolosamente scricchiolante, teneva gli sguardi fissi su un punto lontano, dove si vedevano talora brillare dei fuochi ed innalzare nubi nerissime. Guardava oltre la necropoli, verso le terre libere.
«Domani sarò là.» disse. «Libero e ricco sfondato. Ortragh, Mianthe e, più oltre, Phuldeblar. Mi volete morto? Eh no, cari miei, Vronch non è mica un fringuello. Vadano a fare in culo i Baldench e i vili che li hanno uccisi! Che la maledizione di Krustulas li perseguiti in questa e nell’altra vita, eccetera eccetera. Ukhurra mi perdonerà di averla privata dell’eredità e comprenderà che la sua morte era necessaria. Almeno sfuggirà alla schiavitù che l’attende, e io sfuggirò alle sue legnate. Eh eh eh.»
Un grido sbilenco echeggiò in quell’istante proprio sopra il tetto della casa.
«L’uccello della morte si è posato sulla mia casa,» disse con un bieco sorriso. «Forse l’anima di mio nonno. Sì, nonno, la vecchia avrà quel che si merita.»
Percorse con passo fermo tutta la veranda e aprì una porta, entrando nella sua stanza da letto.
La stanza dell’ex-generale era ampia e arredata con ben poco gusto, visto che predominava in tutti i mobili lo stile coboldo. Le pareti erano coperte di frammenti malassortiti di tappezzeria con fiori, scene di corte, palombari e cani; il soffitto era tutto scolpito ma ormai divorato dai tarli, il pavimento coperto di piastrelle a disegni stravaganti, prese chissà dove. Alle finestre pesanti tendaggi verde-muffa, nel mezzo un ampio letto di forme massicce; qua e là, negli angoli e lungo le pareti, mobili antichi incrostati d’avorio e di piombo, poi vasi, vasetti, appendini e quadri sbiaditi; e di fronte al letto, su una mensola di ebano, una statuetta di Krustulas. Vronch, appena entrato, si diresse lentamente verso un angolo in cui, sopra una mensola di ghisa, si vedeva una larga sciabola dalla lama intaccata e scheggiata, colla guardia enorme, a forma di drago. Era la sua arma di guerra, una volta taglientissima ma ormai ricoperta di ruggine, già tinta e ritinta un tempo nel sangue di goblin, yeek e coboldi – specialmente del sangue che sgorga dalla schiena.
La impugnò con mano ferma e la guardò per alcuni istanti, alla luce della lampada verdastra che ardeva proprio sopra il letto; poi, con un ghigno, mimò alcune goffe tecniche di scherma. Ad un tratto però abbassò l’arma, poi la gettò su uno dei divanetti.
«Ahimè, povera Ukhurra» disse ridacchiando. «Il sangue ti rovinerà i tappeti.»
Stette un momento irresoluto, poi si diresse verso un tavolino sbilenco, su cui stavano parecchi vasi di porcellana, delle tazze e delle caraffe piene d’acqua e di liquori.
«La morte ti coglierà nel sonno,» mormorò. «Spero solo che l’effetto dell’erba-yotka duri ancora un po’.»
Si versò un bicchiere di vino e lo vuotò d’un fiato. Nonostante la droga che le aveva somministrato, l’idea di entrare di soppiatto nella camera della vecchia lo terrorizzava. Raccolse la scimitarra e si avviò spedito verso la porta, dicendo: «Addio, vecchiaccia malefica! Mi spiace, ma o te o me.»
E cadde a terra come un tronco. Sulla veranda l’uccello della morte faceva echeggiare per tre volte di seguito il suo funebre grido.


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