«Chi non vive, scrive»

macdonaldCosì diceva, in tempi non sospetti, la mia prof di lettere, persona quantomai degna di lode; e a questa massima se ne accompagna un’altra: «Meglio un giorno da leoni che cent’anni da pecora e meglio tutt’e due che un mese da paguro». Ma non preoccupatevi, non state per leggere il solito discorso – che prima o poi si legge in ogni blog – sul fatto che ci ho un sacco di cose da fare, cose perlopiù noiose & ingrate, e quindi non ho tempo per scrivere minchiate per il sito. Perchè il tempo per le minchiate si trova sempre. Così come il tempo per leggere. Per esempio:

Chi è morto alzi la mano, di Fred Vargas

Di che si tratta. Una tizia guarda fuori dalla finestra e vede che nel suo giardino c’è un albero che la sera prima non c’era. Un albero, con tronco, rami, foglie e radici. Il marito non sembra colpito dalla cosa, ma la signora sospetta che ci sia qualcosa sotto. Sotto l’albero, dico: tipo un cadavere. Così chiede aiuto ai suoi strani vicini di casa, tre giovanotti e un anziano ex poliziotto che abitano in una casa di quattro piani, un piano per uno, alla faccia della crisi degli alloggi. Sotto l’albero non c’è nulla, ma la signora non si tranquillizza; anzi, sparisce senza traccia. I Tre Evangelisti (i ragazzi di cui sopra – si chiamano Marc, Mathias e Lucien e quindi il vecchio malsano li soprannomina così, che simpatico, e in effetti il più grande mistero di questa storia è come mai non gli mettano le mani addosso) si sentono obbligati a indagare. Che fine ha fatto la signora? Perchè il marito sembra fregaresene? Quali ombre si nascondono nel suo passato? Chi le ha piantato un platano in giardino?
Impressioni. E’ un giallo, e io con i gialli non ho un buon rapporto. Dopo un po’ inizi a fare il conto dei personaggi perchè sai che il colpevole è sempre uno di loro, e quando i protagonisti sono quattro il gioco ne risulta assai facilitato. Tuttavia a un certo punto sembra che della scomparsa della signora non freghi più niente a nessuno e il romanzo segue le vite dei tre ragazzi, i loro studi, i loro intrallazzi e così via il che, per quanto mi riguarda, me lo ha reso molto più piacevole. Poi, di botto, succedono un sacco di cose tutte assieme e si arriva a scoprire che il colpevole è il colonnello Mustard in biblioteca col candelabro o qualcosa del genere. E soprattutto, che cosa c’entra il platano (non sono sicuro si tratti di un platano, anzi, se non ricordo male si tratta di un faggio. O di un larice). Comunque: tutto sommato una lettura divertente. I personaggi sono notevoli e uno più strambo dell’altro (i tre evangelisti, dico: Marc è un medievalista bohemien sempre vestito di nero; Mathias è un archeologo grande grosso e barbuto, e Lucien è un nerd appassionato di militaria) e le loro interazioni sono il principale interesse del libro; li vedrei bene in un film. Tra parentesi l’autrice, in quarta di copertina scrive che non le piacciono i gialli «che raccontano crimini complicatissimi che nella realtà non esistono: un delitto è sempre semplice» . Non so voi, ma l’idea che qualcuno nottetempo scavalchi l’inferriata di un giardino portandosi un platano in spalla per piantarcelo all’insaputa della proprietaria perchè così il mattino dopo eccetera – oh, beh.

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Il Manifesto dei Cosmonisti, di Mikael Niemi

Cos’è. Una raccolta di racconti sullo spazio, la corsa allo spazio, la vita nello spazio, cosa fare nello spazio, i robot, l’universo, i marziani, la vita e le Grandi Domande. File under: «fantascienza», anche se, come «Terra!» di Stefano Benni, o certe cose di Calvino, o «La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo» della Niffenegger, è fantascienza scritta da gente che di solito non scrive fantascienza. E sembra strano, ma si sente (è vero, e qualunque appassionato di SF può confermarlo: chissà perchè). Ed è svedese.
Dettagli. Notevole. Alcuni tra i racconti più seri («Il Tascapane», sui ricordi della Terra che i cosmonisti si portano in viaggio) hanno un che di Bradbury; altri («Androidi», sulla diffusione degli androidi – ehm, non era difficile, in effetti – nella società umana – androidi così perfetti che non solo sono indistinguibili da un uomo, ma sono essi stessi ignari della loro androiditudine (sì, «androiditudine», perchè?)) sono degni di Lem, e così via. E poi: «Il Groviglio» descrive un universo in cui tutti i mondi sono collegati da una specie di Über-rete, e sul collasso della produzione letteraria nel momento in cui ci si rende conto che qualunque cosa uno pensi da qualche parte è già stata scritta. Oppure: «La buca della Cotica», vita e incontri del camionista spaziale, nightclub multi-specie e abitudini festaiole di alieni umanoidi o amebe giganti. Ce n’è per tutti i gusti: il mio preferito parla di Ròtolo, l’essere supremo, i cui emissari vanno in cerca di singolarità da «fecondare» per creare nuovi universi. Ovviamente il nostro è stato creato dai due più imbranati.

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Maestro del Passato, di R.A. Lafferty

Di cosa parla. La dorata Astrobia è in pericolo! Questo mondo perfetto, questo paradiso tecnologico è roso da un male oscuro, un insonne malanimo che minaccia di scardinarne le fondamenta e gettarlo nel caos e nella barbarie. Dopo averle provate tutte, i signori di Astrobia decidono di affidare il controllo di quest’utopia a un uomo onesto, e la scelta cade proprio sull’inventore della parola “Utopia”: Thomas More (1478 – 1535). Così mandano un pilota attraverso lo spazio e il tempo fino alla Londra del XVI secolo, e l’autore della Responsio ad Lutherium si trova catapultato in un mondo sconosciuto, in compagnia di un negromante, un rinnegato, una bambina demonio, un cyborg e una foca gigante telepatica, per affrontare mille avventure il cui senso per la verità mi sfugge.
Eh? Questo è uno di quei romanzi in cui la trama è un optional. E’ un romanzo folle, scritto probabilmente quando l’LSD andava più di moda di adesso; un romanzo barocco e visionario, con scene che sembrano scritte apposta per il palcoscenico e dialoghi da declamare con enfasi eccessiva e ampi gesti scomposti. Poi magari ha anche un senso, chissà; resta comunque un libro assai curioso, sempre pericolosamente vicino al Confine delle Minchiate, e da leggere con l’umore giusto, senno’ dopo tre pagine lo butti dalla finestra.

Peter Proctor era una volpe e correva a quattro zampe su una sottile crosta vulcanica sotto la quale si spalancava un abisso. Thomas fu bruscamente preso dal terrore alla vista di quel vuoto sotto la crosta, e delle fiamme guizzanti che erano soltanto una delle orrende caratteristiche di quel vuoto. A quale profondità giungeva il baratro sotto la crosta? Thomas guardò: l’abisso era eterno, senza fondo. S’intravedevano le stelle laggiù, a una distanza immensa, ma c’era qualcosa di strano in quelle stelle. Erano in qualche modo distorte, e così la loro luce. Ma Peter la Volpe non aveva paura di quelle profondità abissali, neppure quando enormi frammenti della crosta vulcanica si sfaldarono sotto i suoi piedi, precipitando nell’eternità sottostante. «Laggiù sono a casa mia» disse la volpe. «Che la crosta precipiti pure là dentro, che si spezzi e si frantumi, e che tutti gli esseri che vi abitano precipitino anch’essi fra le fiamme. Io dò il benvenuto al vuoto dell’abisso, al vuoto fondamentale. Nacqui per esso, e trascinerei l’intero universo dentro di esso, se soltanto quegli sciocchi confusionari che cercano di sostenere la crosta la smettessero una buona volta. Le fiamme che guizzano nel vuoto sono la mia casa. Niente può nuocere a una volpe dalla coda di amianto.»
E allora Thomas si accorse che Peter la Volpe aveva davvero la coda d’amianto.

(Sì, c’è scritto “foca gigante telepatica”.)


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2 pensieri profondi su “«Chi non vive, scrive»

  1. Vargas.
    Love her.
    [e più che altro amo tutti i suoi personaggi.]

    Foca gigante telepatica? Coda d’amianto? What?

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