L’Uomo che fu Giovedì

Lucian Gregory è un poeta, e come se non bastasse, è un anarchico. Un anarchico di quelli vecchio stile, tipo primi del ‘900, di quelli insomma che tiravano bombe, inneggiavano al caos e alla distruzione e scatenavano guerre uccidendo arciduchi. Ovviamente nessuno lo prende sul serio, anzi, come dice lui stesso, le signore del vicinato gli affiderebbero senza esitazione i loro bambini. Ma Gregory mal sopporta quest’accondiscendenza di cui è fatto oggetto, e una sera, dopo un’animata discussione con un conoscente, Gabriel Syme, decide di scoprire le carte, e di condurre quest’ultimo (dopo avergli fatto promettere di mantenere il segreto) a una riunione del Consiglio Centrale Anarchico. Pessima idea. Mentre attendono di essere ammessi, anche Syme chiede all’amico di mantenere un segreto: Gregory dà la sua parola d’onore (e la parola d’un gentiluomo è definitiva), e Syme gli rivela, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, di essere un agente di Scotland Yard. Da questa rivelazione prende il via L’Uomo che fu Giovedì, un curioso giallo metafisico dello stesso autore dei racconti di Padre Brown, G.K. Chesterton. Perchè metafisico? Perchè le vicende di Syme, che riesce ad entrare nel Consiglio Centrale Anarchico e a diventare uno dei capi del movimento, assumono, via via che il romanzo procede, un tono sempre più surreale ed onirico: nessuno in questo libro è ciò che sembra, ognuno ha qualcosa da nascondere, e i membri del Consiglio (ognuno identificato dal nome di un giorno della settimana), celano, dietro le loro maschere grottesche e inquietanti, impensabili segreti. Ma il più misterioso di tutti è il capo, Domenica, invisibile, onnisciente, folle, demoniaco, l’incarnazione stessa dell’Anarchia. Ed è proprio il significato di Anarchia e di Legge, di Ordine e Caos, il centro del romanzo: un tema sul quale Chesterton, da buon cattolico, aveva le sue idee, paradossalmente opposte a quello che sembra emergere dal finale della storia. E qui potete anche smettere di leggere, se avete intenzione di leggervi il romanzo. Sennò, sappiate che a) il sottotitolo del libro è “Storia di un Incubo”, e b) l’incubo è il finale, ovverosia la scoperta che Domenica è sì il capo degli anarchici, ma anche il capo della Polizia Segreta: una perfetta visione dualista del mondo, dove Legge e Caos sono opposti ma equivalenti, non potendo l’uno esistere senza l’altro: come il giorno e la notte, la luce e il buio, la vita e la morte, il Bene non esiste senza il Male. Una visione tutto sommato accettabile, per un taoista o un buddista – ma certo non per un cattolico vecchio stampo, per il quale non si può paragonare Dio al Diavolo. Questa interpretazione, che ribalta il senso del romanzo, emerge dalla lettura della postfazione (che avevo sempre accuratamente saltato), un estratto da un articolo di Chesterton pubblicato il giorno prima della sua morte, che definisce il romanzo “… una trascurabile esercitazione melodrammatica, (…) la descrizione di quel mondo di dubbi angosciosi, di disordine e disperazione…” dal quale la fede lo aveva alla fine sottratto. C’è una morale in tutto questo? Voglio dire, se un romanzo ti piace e poi scopri che l’autore intendeva dire l’esatto contrario di quello che hai sempre pensato volesse dire, deve smettere di piacerti? Non credo. Sul bene, sul male, sul significato e su “quel che c’è dietro” si può parlare fino allo sfinimento: non cambia il fatto che L’Uomo che fu Giovedì è, e rimane, uno dei miei libri preferiti.


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3 pensieri profondi su “L’Uomo che fu Giovedì

  1. Ero alla ricerca di spiegazioni (ma forse sbagliavo?) su questo magnifico romanzo. Ho trovato un’ottima interpretazione, che credo rispecchi l’intento del ‘paradossale’ scrittore.
    E’ semplicemente un libro da divulgare, e credo che la sua bellezza stia nel fatto che non esiste una prosa univoca.
    Bello da leggere e da discutere

  2. Questo libro è terrificantemente noioso: i personaggi sono vuoti “tipi”, manichini che altro non sono che allegorie; l’intreccio, dopo poche pagine, diventa prevedibile, tutto è inverosimile e meccanico, il cosiddetto British humour qui altro non è che la banale comicità delle più trite “comiche” del cinema muto (travestimenti, colpi di scena…).
    Il libro si propone l’alto fine di illuminare il lettore con una moralità cristiana che traspare dal senso metafisico della storia. In realtà, la posizione ideologica dello scrittore (critica del materialismo, del relativismo morale e del decadentismo tipico della cultura del periodo) non viene messa in un interessante e serio contraddittorio con il mondo ideologico criticato e risulta soffocante, cosicché il lettore sbadiglia dopo poche pagine. Se si pensa a scrittori “metafisici” come Kafka, o Beckett, o Ionesco, tanto per fare qualche esempio, prescindendo dal diverso contenuto ideologico, c’è un baratro tra loro e Chesterton, sotto tutti gli aspetti (stilistici e contenutistici).

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