L’aeroplano del Papa – Romanzo profetico in versi liberi

Muttley! Fa qualcosa!Siamo nel 1914. L’Europa è sull’orlo della guerra. Solo una voce si alza in difesa della pace: la voce del Papa – una voce che  non tutti sono disposti ad ascoltare. Per strano che possa sembrare, abituati come siamo all’intoccabilità del santo padre, c’è chi non è d’accordo (1).  Immaginatevi la scena: il Papa,

«carceriere della terra,
o sorcio mostruoso delle fogne del cuore,
vecchio scarafaggio nutrito d’immondizie,
pistillo osceno nella corolla d’una veste talare,
battaglio di campana funerea!»

se ne sta bel bello sul balcone di San Pietro, quando passa un biplano, butta giù un rampino, lo aggancia e scompare all’orizzonte. Sul biplano c’è F.T. Marinetti, e chissà perchè la cosa non stupisce. «L’Aeroplano del Papa» è un torrenziale (e spesso demenziale) poema sull’italica bellezza, sulla bellezza della guerra alle porte e in generale su quanto è figo essere Marinetti.
Il quale, come ben si sa, non ha il minimo senso della misura nè del ridicolo; è chiassoso, arrogante, si contraddice da solo, sostiene tutto e il contrario di tutto, e dice cose serie come fossero cazzate e cazzate immani come fossero verità solenni – ed è per questo che lo adoro (2). Ma certi argomenti sono al giorno d’oggi (specie quando salta fuori un nuovo partito i cui membri sono talvolta soprannominati «futuristi») non dico tabù, ma di certo assai spinosi. Fare d’ogni erba un fascio – ehm – è sempre una pessima idea, sia che si parli del presente che del passato; basta cercare un po’ per trovare opinioni assai interessanti sul Futurismo, opinioni che frantumano le dicotomie cui siamo abituati. Per esempio, può essere interessante sapere che i futuristi

«… hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme, di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i futuristi: quando sostenevano i futuristi, i gruppi operai dimostravano di non spaventarsi della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma, come i futuristi, questi operai sostenevano la storicità, la possibilità di una cultura proletaria, creata dagli operai stessi».

Lo diceva Gramsci (3), mica Gasparri (scusate). Ma è meglio sorvolare (col biplano) queste faccende e lasciare che ognuno si tenga l’opinione che preferisce. Che altro resta? Resta l’incredibile quantità di immagini e suggestioni di cui questo poema-pamphlet-delirio trabocca: descrizioni del bel paese, che il nostro baffuto eroe percorre dalla Sicilia alla laguna veneta (dove finalmente sgancia il rampino e manda il Papa in pasto ai pesci!) – descrizioni, dicevo, surreali e immaginose, come una specie di «Fantasia» disneyana autarchica: i vulcani visti come aule parlamentari o circhi di elementali del fuoco:

Il Vulcano, gran signore, è prodigo di spettacoli.
Voi non mi vedete, belle fiamme cavallerizze,
nè voi, rossi tizzoni che vi cullate
su altissimi trapezi subitamente mangiati
dal turbine degli attori sopraggiungenti!
Son donne nude interamente coperte
delle loro chiome d’oro abbaglianti….
Biondezze soavi e modulate
di carni e di velli, e qua e là criniere
di leoncelli trascinati pigramente a guinzaglio….
Ad un tratto, da tutti i palchi
di quel circo fastoso si sporgono castamente
donne-fiamme verdi,
intollerabilmente acide…

… oppure lunghe catene montuose viste come branchi di immensi animali in fuga; squarci di nuvole come eserciti, arcigni prelati attorniati da chierichetti e così via; e oniriche cartoline da una Milano di giovani chiassosi e vecchi bottegai incancreniti che si sporgono dalle finestre a dire «Basta! C’è gente che vuole dormire!» (certe cose non cambiano mai).
Resta anche l’idea del Futurismo, con tutte le sue cazzate e i suoi brum brum proot, come tentativo di aprire una strada nuova, etica, estetica o anche semplicemente grammaticale (4): con tutto quello che ne consegue, perchè per costruire qualcosa di nuovo bisogna prima distruggere il vecchio, e procedere un po’ per tentativi: «[…] non aver paura delle novità, e delle audacie, non aver paura dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro somiglia a un cartellone, se la gioventù fa tanto di naso alla senilità accademica e rimbambita» (5). E resta, ed è forse la cosa più difficile da comprendere, questo impetuoso amore per la guerra, «sola igiene della Galassia» (6); difficile da capire per noi, che guerre non ne abbiamo viste se non in televisione ma che ben sappiamo che razza di porcherie siano, al punto da sterilizzare la stessa parola, sostituendola con le «missioni di pace». La Grande Guerra fu un disastro di proporzioni bibliche, ma in un certo senso lo posso capire, Marinetti (il quale peraltro si arruolò volontario in un battaglione di ciclisti (7) e fu pure impallinato): vivere in un paese come l’Italia di allora, un paese ingessato, statico, sonnolento, una società feudale quando non direttamente tribale, una politica fatta da mummie incompetenti, la scienza e la tecnologia relegate ai margini del panorama culturale, i porporati vaticani a dettar legge… insomma, a un certo punto la voglia di scendere in strada e spaccare tutto, la voglia di far piazza pulita per poter costruire qualcosa di magari un po’ migliore, la voglia di mettersi in gioco, in prima linea – che si tratti di cannonate o di cariche della polizia –  è umanamente comprensibile, se non condivisibile.

Guai a coloro che vogliono far metter radici
ai loro cuori, ai loro piedi, alle loro case,
con un’avara speranza d’eternità!
Non costruire, si deve, ma accamparsi.
Non ho io forse la forma d’una tenda
la cui cima troncata dà fiato alle mie collere?
Io amo solo gli astri, snelli equilibristi
che stanno ritti sulle sfere rotolanti
dei miei fumi giocolieri!…

l’Italia di allora.
Già.
Ehm.

«L’Aeroplano del Papa» è scaricabile aggràtis da Project Gutenberg.

***

(1) Non è il solo caso. Lo sapevate che Garibaldi, padre della patria, la pensava più o meno allo stesso modo?
(2) Tratto da qui.
(3) «Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo (1921-1922)», Einaudi, Torino 1966 – da Wikipedia.
(4) Per altri esempi di grammatica futurista: Le Aeronavi dei Savoia e la Società dei Lungimiranti.
(5) Sempre Gramsci. Tratto da «Futurismo», di C. Tisdall e A. Bozzola, Rusconi, 1988.
(6) «Mechanicum», di G. MacNeill. Un romanzo tecnofantasy decisamente intrigante. Per chi apprezza il Warhammer 40,000. Gli altri stiano alla larga.
(7) Chissà perchè l’idea di Marinetti che va in battaglia pedalando, beh, pare quasi ovvia. Per altri usi militari della bicicletta nella Grande Guerra, vedere qui.
(8 – ehm) Fra parentesi, il mitico Nanni Svampa ha scritto una piccola spassosa canzone intitolata «L’Aereo del Papa». Non c’entra nulla col Marinetti, ma col primo viaggio in aereo di un pontefice, Paolo VI, negli anni ’60, e con le preghiere di una beghina terrorizzata da un possibile disastro aereo (Youtube). Così, per dire.


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Una profonda riflessione su “L’aeroplano del Papa – Romanzo profetico in versi liberi

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