I Due Allegri Indiani

 Terzo Episodio: i Misteri del Sesso

Varcata la breccia di Porta Pia (1870), gli indiani si imbatterono in molti problemi di carattere politico, geografico e ferroviario, tutti insolubili. La letteratura non poteva non riflettere questo momento di notevole perplessità. In Giosuè Carducci l’India nuova trovò la sua voce…

Ebbene sì, cari lettori! Seguite anche voi le fantasmagoriche avventure di Cavallo Alto e Daino Rosso, i due intrepidi indiani sioux (o comanches, o seminole) che scorrazzano per l’India, specialmente tra il Parioli e Tor Bella Monaca, tra parcheggiatori abusivi, avventisti del settimo giorno, coccodrilli –

No, daccapo.

Verso la metà degli anni ’70 la rivista di ippica “Il Maneggio”, famosa in tutto il mondo, non solo ippico, e di cui certamente Voi stessi avrete sentito parlare, pubblica a puntate il romanzo di avventure “I due allegri indiani”. Per una serie di motivi che sarebbe troppo lungo elencare, e che non sono nemmeno sicuro che abbiano un senso, ogni capitolo del romanzo è scritto da una persona diversa, che non solo non ha la minima idea di quello che hanno scritto gli altri, ma non è nemmeno uno scrittore. Oppure sono tutti la stessa persona, il signor Vincenzo Frollo, sotto mentite spoglie. Oppure questa stessa persona è in realtà J. Rodolfo Wilcock (di cui ci siamo occupati qui e qui), che è anche l’autore degli spettacolari scambi epistolari tra editrice, lettori e pseudo autori.
Insomma.
Nel risvolto di copertina si tirano in ballo i Monty Python, cosa che per me rasenterebbe l’eresia; eppure in questo caso hanno perfettamente ragione (avete presente lo sketch dell’indiano al cinema?). Per esempio:

“Egregio Autore:
Sono il figlio adulterino di Adolf Hitler. Nel 1943 sono riuscito a stabilire contatti con il pianeta Venere. Da una località solitaria della Francia Occidentale sono partito a bordo di un disco volante verso Venere dove mi sono trattenuto diciotto mesi. […] I venusiani vogliono scendere sulla Terra per imporre la pace tra le nazioni. Hanno deciso di atterrare a Berlino Tempelhof. La prego di far correre la voce tra gli Indiani: il loro aiuto potrebbe rivelarsi risolutivo. Heil mio padre!

Dario Sozzi,
Como”

Oppure:

“Ora vado a occuparmi dei funerali della zia, a quest’ora probabilmente in preda all’Acheronte. Lasciate perdere l’avvelenamento, non sono storie da raccontarsi al personale di servizio. Per una secolare consuetudine araldica privativa del nostro casato, io, suo nipote, eredito il titolo di contessa. Anche mio nonno era contessa; peraltro mio cugino è damigella palatina, e una zia di papà era Gran Maniscalco del Re.”

Oppure:

 “Ascolta, Cavallo Alto, e se le mie parole troppo ti sconvolgono, aggrappati alla prima ancora di salvezza che passa.”
“Parla, Daino Rosso, e che il mio sguardo sereno sia come un faro che guida la tua mente ottenebrata dalla vergogna.” 
“Ero più giovane…”, cominciò Cavallo Alto.
“Anch’ io lo fui.” 

Per non parlare della copertina, che qui non sto a riprodurre ma che è probabilmente la miglior copertina Adelphi di sempre.
Ora, mi viene il sospetto che il buon J. Rodolfo – che fra l’altro scriveva in italiano senza essere italiano, e sfoggia una padronanza e una creatività linguistica veramente sorprendenti – ora, dicevo, mi viene il sospetto che tutta questa sarabanda celi in realtà un qualche intento satirico. Gli indiani di Wilcock, e gli autori dello pseudoromanzo, e i lettori che scrivono per chiedere che si parli di più del Ss. Rosario o dell’adolescenza di Gramsci, sono forse un impietoso ritratto della società italiana di ieri e soprattutto di oggi? Parlando di Indiani, s’intende forse che l’Italia è un paese tribale, dove quello che conta è il benessere mio e di quei tre o quattro parenti stretti e il resto vada pure a farsi benedire? L’italiano è una specie di selvaggio ben vestito, superstizioso, irrazionale, anarchico, impossibile da educare e da governare?

Sì.

Ma che ci volete fare. Il problema è che noi, essendoci dentro fino al collo, spesso non ce ne accorgiamo. Wilcock, straniero, ha un punto di vista che non è il nostro. E forse è per questo che questo libro è così divertente, perchè è un mix perfettamente riuscito tra la comicità surreale dei Monty Python e la cialtroneria de’ noartri, perchè pesca a piene mani, oltre che nei clichè della letteratura di genere, del romanzo di avventure, del feuilleton, della “rivista”, dell’avanspettacolo, in tutto quell’immaginario da commedia all’italiana, fatto di caratteristi, di tormentoni, di sketch demenziali, che ci piaccia o no, fa parte di noi. Provate a dare ai personaggi di questo libro i volti noti e arcinoti di Bombolo e Cannavale, di Renzo Montagnani, di Sordi e Tognazzi; oppure provate, mentre leggete i loro dialoghi, a immaginarvi Daino Rosso e Cavallo Alto con le facce di Olgese e Margiotta.

Come diceva Labranca, l’Estasi del Pecoreccio.


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2 pensieri profondi su “I Due Allegri Indiani

  1. Sono io il Dolce Stil Novo!
    Pezzo memorabile, sito memorabile. Da ora (hic et nunc) avete un nuovo lettore.
    Rallegratevi con moderazione.

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