Essendo capace di intendere e di volere – Guida al testamento narrativo


Presentiamo all’attenzione dei lettori una cospicua raccolta di testamenti olografi, scritti lungo tutto l’arco del ‘900, compilata e curata da Salvatore de Matteis in lunghi anni di esplorazione degli Archivi di Stato (che, immagino, siano luoghi da visitare con spada e lanterna, metri e metri di corda robusta, e magari una barchetta) di Napoli, forse, o di qualche altra popolosa città del Mezzogiorno d’Italia. Il testamento olografo (o “testa mando agrofolo”), come sicuramente saprete, è il testamento vergato non di fronte a un notaio, ma in qualunque altra circostanza, mantenendone comunque lo stesso valore legale. Tuttavia, proprio per le sue caratteristiche di atto magari improvviso, dettato dal subitaneo aggravarsi di una malattia, o da ponderose riflessioni sulla caducità della vita, o dall’eccessivo accumularsi di dolori e tristezze, il testamento olografo mantiene una spontaneità che la sua controparte, diciamo così, “burocratica” si sogna. Non avendo mai steso un testamento, posso solo azzardare, ma immagino che mettere per iscritto le proprie ultime volontà sia un atto di una certa importanza, qualunque siano i motivi che ci spingono a farlo. Siamo messi di fronte all’ineluttabile certezza della nostra mortalità; siamo costretti a tirare le somme di ciò che abbiamo fatto e siamo stati – e di solito ben pochi possono dire, come Ozymandias, “guardate le mie opere, o potenti, e disperate”. Ed è per questo che il testamento olografo riesce a dire così tanto, della persona che lo scrive, in così poche parole. Questo libriccino è, alla fin fine, una raccolta di biografie involontarie, una galleria di caratteri, una serie di ritratti spesso comici – per l’italiano approssimativo, per le bizzarrie degli scrittori – a volte triste – per i magri bilanci di vite rovinate, di rancori decennali, dispute e faide – a volte commovente. C’è l’uomo che scrive le sue volontà di nascosto dalla moglie, “che se si sveglia son mazzate”; c’è la ricca vedova che lascia il patrimonio al pappagallo, raccomandando agli esecutori di licenziare “quel fetente del portiere”; c’è il soldato che lascia alla fidanzata la medaglia guadagnata al fronte; la donna che vuole un funerale degno di un imperatore “con venti orfanelli coi ceri”; c’è l’uomo che teme di essere sepolto vivo e chiede che nella bara ci siano acqua, cibo, la dentiera e lo “iochitochi” per chiamare il genero (che se non si fa trovare verrà diseredato); il marchese caduto in disgrazia che lascia ai suoi unici amici, mendicanti e senzatetto, la sua panchina preferita al parco e il suo bastone col pomo d’argento. C’è un’intera umanità, in questo libretto, il che dovrebbe suggerirmi alcune profonde riflessioni sulla vita, l’universo e tutto quanto; ma non mi viene in mente nulla di adatto al luogo e all’ora: per cui chiudo con questa raccomandazione: “In fundis. Mi arraccomando le esequie. Non facciamo le solite figure di pezzente.”


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