La Città del Re Leucrotta – Cap. XVIII

Fuoco e Fiamme


Lo scatto dell’uomo-lucertola era stato così fulmineo, che il dottore non aveva avuto il tempo d’intervenire. D’altronde nulla avrebbe potuto fare contro tutti quei bricconi ben armati e certamente decisi a non lasciarlo correre dietro al fuggiasco. Ora, seduto sul sudicio pavimento di legno dell’infernale ordigno nanico, ascoltava i suoi carcerieri parlottare tra loro.
Faribûz, dopo aver dato ordini ai suoi uomini, cioè, nani, si rivolse al dottore, dicendogli in lingua comune, che pareva conoscere perfettamente:
«E tu? Che cacchio sei venuto a fare qui, uomo bianco? Io ho saputo che quelli della tua razza abitano un paese assai lontano.»
«Sono venuto qui a cercare… ehm… un tesoro. Già, un enorme ricchissimo tesoro per conto del re del Fethrund,» rispose Eriprando. «Questi territori gli appartengono e tu sai che tutti quei grossi animali, mostri, monete e oggetti magici sono di proprietà reale. Ti consiglio quindi di lasciarmi andare libero, senza farmi alcun male, possibilmente, se non vuoi incorrere nella collera di quel potente monarca.»
Il nano non poté frenare uno scoppio di risa.
«Io non sono suddito dei coboldi, ma un nano libero che non è quindi schiavo di nessuno,» rispose con orgoglio. «Tu sei mio schiavo e non ti lascerò libero. Come me. Che sono libero. Ha.»
«Farai dunque di me uno schiavo?»
«…»
«No, dico, farai dunque di me uno schiavo?»
«Non solo sei vecchio, ma pure lento di comprendonio. Ti venderò anche a caro prezzo a colui che aveva assoldato il nostro vecchio capo. Gli uomini bianchi sono rari come i draco-pegasi bianchi ed il mandarino sarà ben lieto di pagarti una montagna d’oro, argento e crisopazi.»
«Tu sei un miserabile!» gridò Eriprando, cercando di avventarsi sul selvaggio.
I Dwergar, che lo sorvegliavano, ad un cenno del loro capo si gettarono sul povero dottore, legandolo strettamente con due fasce di cotone, colle mani dietro al dorso.
«Mettetelo nella stiva,» disse il capo.
Lo afferrarono e lo calarono giù per la botola, senza molte precauzioni, facendolo ruzzolare fino sul fondo. La prima cosa che colpì il prigioniero fu la vista del motore, così enorme che mai ne aveva veduto prima di eguali, e che occupava il mezzo della stiva, colla testata quasi incandescente e le fiancate coperte di rune orribili, dalle quali usciva ancora in gran copia un vapore fetido. Quel mostro meccanico misurava non meno di venti piedi, aveva una circonferenza di tre o quattro ed era ricoperto di ruggine e olio, con larghi bulloni gialli che luccicavano come se fossero d’oro; vibrava e brontolava come un coguaro inferocito, a causa degli spiriti elementali che vi erano imprigionati. Una balaustra di ottone lo circondava, impedendo di giungere troppo vicino, dove il calore era insopportabile. Il resto della stiva era occupato da casse e scatoloni, paglia, e poi rifiuti di ogni genere, vecchi giornali e alcuni animali morti e molto, molto piatti.
Mentre il dottore si guardava in giro, il capo dei Nani scese nella stiva con alcuni accoliti. Infisse su un bastone la coda dell’uomo lucertola (nonostante i borbottii delusi dei due nani che l’avevano portata a bordo) e la collocò sopra il portellone del motore, tenendosi ad una certa distanza e gettando sui tizzoni dei sarmenti verdi per produrre molto fumo. Si preparava a consegnarla agli spiriti in segno di buona volontà. E infatti una lingua di fuoco saettò da una delle tre fornaci e strappò l’orrendo trofeo dalle mani del Nano. Si udì un rombo, poi uno scossone, e il dottore, sballottato in un angolo, capì che la diabolica macchina si era messa in moto.
Intanto alcuni dei nani si erano alzati ed a colpi di sciabola aprirono scatolette e lattine di birra.
«Si preparano la cena,» disse il dottore. «Puah!»
I Dwergar, che non dovevano essere molto schizzinosi, misero quei pezzi di carne sul motore incandescente, poi quando furono arrostiti e imbrattati d’olio si misero a divorarli ingordamente, come se si trattasse d’un delizioso manicaretto. Ben presto al povero dottore parve d’essersi precipitato in uno dei variopinti inferni dei pagani d’oriente, come l’Inferno del Dragone Untuoso o quello degli Impiccati a Testa in Giù. Il frastuono dell’ordigno e dell’elementale prigioniero era insopportabile, così come gli scossoni e i continui sussulti causati da alberi o rinoceronti che il Juggernaut spianava senza pietà. I Nani, ormai alticci, ridevano e cantavano le loro sgangherate canzoni; avevano preso a lanciarsi bucce di popone e scatolette vuote, e tutti fumavano sigari puzzolenti fatti di chissà quali foglie, il cui fumo, unito ai vapori del motore e alla loro scarsa, per non dire inesistente, propensione all’igiene personale, rendeva l’atmosfera greve e irrespirabile. A un certo punto si udì la voce dell’uomo bianco gridare: «Ehi! Nani della malora! Qualcuno ha un mazzo di carte?»

Passarono ore. Uno dei nani che si trovavano sul ponte, al piano di sopra, adibiti alla guida dell’ordigno, si sporse dalla botola.
«Che vuoi, coso?» chiese Faribûz, palesemente ubriaco e ancor più palesemente privo di quei pochi abiti ch’era solito indossare.
«E’ che si è fatto un certo silenzio, e volevo vedere se… Ma che succede?»
Gli occupanti della stiva erano seduti sulla paglia, in cerchio, intenti a giocare a carte. Qualunque fosse il gioco che stavano giocando, era evidente chi stesse vincendo: il dottore, che sorrideva beato, circondato di monete, sassolini, conchiglie, e della maggior parte degli indumenti e delle armi dei nani. Tutt’intorno si estendeva un campo di battaglia di sigari smozzicati, bottiglie vuote e lattine accartocciate.
«Allora?,» disse l’uomo bianco, con tutta la faccia di bronzo di cui era capace. «A chi tocca, dar le carte?»
«Ma, capo!» gridò il nano, balzando giù nella stiva. «Compagni! Fratelli! Che vi succede? Questo demonio bianco vi ha forse stregati?»
«Zitto, buffone,» gridarono in coro gli altri, «non vedi che siamo impegnati?»
Le sue parole, tuttavia, sembrarono scuotere Faribûz e riportare un barlume di buonsenso in quella mente già di per sè non eccelsa in condizioni normali. «Silenzio, canaglie!» gridò il capo. «Ha ragione! Cosa stiamo facendo? Ci stiamo facendo abbindolare da questo spaventapasseri? Cosa direbbero le nostre nonne? E tu, vile scolopendra,», e puntò l’indice unto e rincagnato verso Eriprando, «mi sa che non ti porteremo dal coboldo che ti ha comprato.»
«Wow! Questa sì che è una notizia!»
«Mi sa che ti ammazzerò qui e subito.»
«Ah.»
«Guarda un po’ te se alla mia età devo fare queste figure… mi hai lasciato in mutande. Ah. Che tempi. Dov’è la mia mannaia? O una chiave inglese, per gli dèi?»
«Ehm, cari, non possiamo parlarne?», disse Von Basedoff, mentre i nani lo accerchiavano. «Voglio, dire, siamo tra gentiluomini, non tra selvaggi, ci dev’essere un modo di…»
«Zitto, cane!», ringhiò il capo. «Preparati a morire!»
«Ecco, si, appunto, proprio questo,» farfugliò l’uomo bianco. «Che ne dite, pensavo, per festeggiar la mia… dipartita in modo adeguato, di uno di quei, ehm, giochi…»
«Niente giochi! E’ giunta la tua ora!»
«… dove bisogna fare qualcosa e chi sbaglia deve bere?»
La proposta del dottore fu accolta da un’ovazione.

L’alba giungeva a grandi passi sulla giungla. Gli animali notturni, i pipistrelli vampiri, le talpe velenose, i ghoul e i tucani dai denti a sciabola si ritiravano nei loro sacelli, mentre altri animali uscivano dalle tane e si preparavano a un’altra giornata di lavoro. Il juggernaut giaceva immobile in mezzo ad una macchia immensa di piante gommifere, al termine della sua scia di distruzione. Da dentro si sentivano, per quanto attutiti dalle sue spesse pareti, risate, schiamazzi, urla, canti e bestemmie.
Nella stiva, metà dei nani giaceva priva di sensi, dopo un’intera notte di bagordi. Gli altri proseguivano il gioco di società che Von Basedoff aveva insegnato loro, anche se “società” era un termine assai poco adeguato per quell’accozzaglia di bruti avvinazzati. Il suddetto dottore, invece, appoggiato alla balaustra che circondava il motore, stava parlando con Faribûz.
«E così…», farfugliò il nano, «… eccosì mi sciono detto… ma chiccazzo me lo fa – me lo fa fare? E ho scia- e ho la- e mi sciono liscensciato»
«Cos’è che facevi, a casa?»
«Fasce – facevo il mescio comunale. Lavoro del cavolo. Ora sci – burrp! – che mi diverto… Saccheggi, rapine, cose…»
«Non lo metto in dubbio. Vedi, caro il mio nanetto,» e gli mise una mano sulla spalla, «dopotutto siamo molto simili, noi due. Niente catene, niente costrizioni o ruoli imposti. Siamo avventurieri, battitori liberi. Dateci le grandi strade, il brivido dell’imprevisto…»
Rimasero in silenzio un po’, fissando i bulloni incandescenti del motore, mentre attorno a loro i pochi nani ancora in piedi continuavano le loro gozzoviglie.
«E quello, cos’è?», chiese il dottore. Un foglio di pergamena, sgualcito e smozzicato, pendeva da uno spago che lo fissava a una delle piastre del motore. Sembrava assai vecchio, ed era ricoperto di strani simboli rossi e neri. «Com’è che non brucia, con quel caldo?»
Fece per afferrarlo, ma Faribûz gli scostò la mano con un gesto brusco. «Non toccare, sciocco!», lo rimproverò. «Non vedi che è un f… foglio masgico? – burrp»
Il dottore lo fissò come se si fosse improvvisamente rincretinito. «E’ così, ti dico – », biascicò il nano, «Questa è la magia che tiene l’e… lelle…»
«L’elementale?»
«Lemmentale. Bravo vecchietto. Nella cosa. Nel coso. Nel motore.»
«E non è pericoloso, tenerlo lì, alla portata di malfattori o fannulloni?», chiese il dottore, con espressione da cherubino.
«Uhm. Ciai rasgione. Meglio che lo tengo io.» Faribûz strappò il foglio dallo spago e lo piegò con qualche difficoltà in quattro. Prima di metterselo in tasca, alzò lo sguardo e disse:
«Mi sa che ho fatto una cazzata.»
Il dottor Von Basedoff era già nella giungla quando il juggernaut esplose.
Rottami d’ogni sorta, pezzi di legno e pietra, sacchi di cibo, bottiglie e nani defunti furono catapultati a centinaia di piedi di distanza. Ben presto delle lingue di fuoco guizzarono attraverso il sottobosco, propagandosi rapidamente alle palme sature di caucciù.
La foresta, pochi istanti prima ancora tenebrosa, s’illuminò come se il sole fosse allora sorto, ed un odore nauseante si sparse dovunque. Le piante, tronchi e rami, si contorcevano sibilando e scoppiettando, e torrenti di caucciù liquido e muco incandescente si spandevano per il suolo provocando nuovi incendi.
«Ed ora,» disse il dottore, «in ritirata, mio prode Von Basedoff. Il fuoco ci protegge le spalle e costringerà i nostri nemici a fuggire, se non vorranno arrostirsi.»
Sicuro di essere validamente coperto da quella barriera di fuoco che divampava furiosamente trovando negli alberi gommiferi un ottimo elemento, il dottore si attardò un attimo a raccogliere un paio di bottiglie miracolosamente intatte (e ancora piene); poi fuggì a tutte gambe, o meglio, data la quantità di alcool ingurgitata durante la notte, si avviò barcollando, aizzato dalla pioggia di scintille che gli cadeva sulla testa perché il vento soffiava nella sua direzione.

Vedendo l’incendio avanzare minaccioso, raddoppiò la corsa per cercare un rifugio in qualche altro luogo, in qualche macchia umida.
Dinanzi a sé vedeva fuggire con velocità fulminea sciacalli, cervi, antilopi e anche un cubo gelatinoso. Il fuoco scacciava tutti dalle loro tane e dai loro rifugi. Arrancò per una mezz’ora, inoltrandosi sempre più nella foresta, poi, esausto, cadde in un piccolo corso d’acqua che non aveva potuto scorgere in tempo.
«Basta,» mormorò. «Non posso più continuare.»
Si mise in ascolto. Gli parve di udire delle grida che si allontanavano nella direzione opposta alla sua. Forse alcuni Dwergar erano riusciti a salvarsi e fuggivano chissà dove. Ma non erano quei selvaggi, né il misterioso coboldo che aveva intenzione di comprarlo, che in quel momento lo preoccupavano, bensì l’incendio che avanzava sempre con rapidità prodigiosa e che lo avvolgeva da tutte le parti, impedendogli ogni via di scampo.
Le scintille portate dal vento dovevano aver prodotto altri incendi più innanzi, e così il disgraziato dottore si trovava in mezzo ad un mare di fuoco.
«Che sia proprio finita?» si chiese. «Povera patria mia, non mi vedrai più!»
Ricacciò in fondo al cuore il ricordo della terra natìa e delle sue galere, e rivolse tutta la sua attenzione agli alberi che lo circondavano.
La fortuna lo aveva guidato in mezzo ad un enorme gruppo di piante umide, e tutto il terreno era inzuppato d’acqua.
«Questi alberi resisteranno al torrente di fuoco,» disse con gioia. «Il destino non ha ancora segnato la mia morte. Cerchiamo di costruire un riparo contro la cenere ardente che cadrà anche qui e contro la pioggia di scintille.»
Prese la sciabola, tagliò una ventina di foglie di banano illusorio lunghe parecchi piedi e le trascinò fin sulla riva del ruscello.
«Prepariamoci un letto ora,» mormorò. Appena si voltò le foglie erano sparite.
Bestemmiando a più non posso, si scavò nella sabbia un buco abbastanza profondo per potervisi sdraiare, vi si introdusse e si ricoperse interamente di foglie e muschio fradicio.
«Ancora pochi minuti di ritardo ed io arrostivo come uno zampone di leucrotta al forno,» disse.
L’uragano di fuoco giungeva in quel momento addosso alla macchia, preceduto da una nuvolaglia di fumo e di scintille. Gli alberi parvero curvarsi tutti sotto la violenza del fuoco. Per parecchi minuti un fumo densissimo avvolse ogni cosa, poi una cupola di fuoco si abbassò sulla macchia, facendo stridere le foglie e contorcersi i rami. Un nembo di scintille e di cenere ardente cadde sul terreno, facendo evaporare rapidamente l’acqua.
Eriprando credette per un momento di morire asfissiato. Le foglie che lo coprivano si accartocciavano su di lui scrosciando, però, bagnate come erano, non avevano fortunatamente preso fuoco.
Quel supplizio durò un mezzo minuto, poi la cupola fiammeggiante si squarciò, il fumo s’innalzò e l’onda di fuoco seguitò il suo cammino attraverso la foresta, continuando la devastazione.
La macchia umida aveva resistito. Le piante sarebbero senz’altro morte, ma che importava ciò al dottore? Quando l’aria divenne più respirabile, Eriprando uscì dalla fossa e s’immerse nelle acque del torrente, provando un grande sollievo in quel bagno.
L’incendio si allontanava verso est; verso ovest tutta la foresta era stata divorata e non rimanevano in piedi che pochi tronchi d’albero semicarbonizzati, che di quando in quando cadevano con immenso fragore, sollevando nuvole di scintille e di cenere.
«Che rovina,» mormorò il dottore. «E chissà quando l’incendio si spegnerà. Se potessi trovare qualche cosa per rifocillarmi, sarebbe una vera fortuna. Non mangio da chissà quanto ore e mi sento completamente sfinito.»
Guardò le piante; ma di frutta non ne vide.
«Che sia destinato a morire di fame?» si chiese. «È meglio che me ne vada al più presto di qui e cerchi di raggiungere le rive del lago. Seguendole potrei forse raggiungere i miei compagni.»
Prese la sciabola, si dissetò abbondantemente, si strinse i calzoni per calmare gli stiracchiamenti del ventre e si mise coraggiosamente in cammino, risoluto ad arrestarsi soltanto sulle sponde del lago.
Attraversato il piccolo corso d’acqua, si diresse verso sud, sperando che l’incendio non si fosse propagato in quella direzione.
Dovette camminare un’ora buona fra la cenere, prima di raggiungere il margine d’una foresta umida che aveva opposto una barriera resistente all’uragano di fuoco. I primi alberi avevano molto sofferto e mostravano le foglie avvizzite, gli altri invece si mantenevano ancora ritti e rigogliosi e gocciolavano abbondantemente. Non udendo alcun rumore ed essendo ancora buio, si sdraiò sotto un cespuglio per riposarsi un paio d’ore. Era così esausto di forze che non si sentiva più in grado di continuare quella penosa marcia.
Quanto dormì? Parecchie ore di certo, poiché quando riaperse gli occhi, il sole faceva capolino attraverso il fogliame e le scimmie urlavano a piena gola sulle cime degli alberi, inseguendosi e volteggiando fra i rami.
Camminò per un paio d’ore ancora, inoltrandosi sempre nella foresta che già diventava tenebrosa, poi si fermò sotto un gruppo di funghi giganti i quali potevano, in mancanza d’altro, servire a calmare la fame.
Raccolse dei rami secchi e poiché conservava ancora l’acciarino e l’esca, accese due fuochi per tenere lontane le belve; poi, sfinito, si coricò su uno strato di foglie secche, tenendosi vicino la sciabola e le bottiglie.
«Quel che ci vuole,» disse, «è un goccetto di questa roba, per scaldarmi. Qualunque cosa sia.»
Quando si svegliò provò uno strano malessere. Aveva freddo, provava dei brividi fortissimi e nello stesso tempo gli pareva di avere le gambe paralizzate. Le bottiglie erano vuote.
«Che sia stato colpito dalla febbre dei boschi o da quell’altra malattia di cui mi ha parlato Vronch? O magari è il delirium tremens? Forse ho esagerato un po’ col bere, in questi giorni…»
Provò ad alzarsi, ma ricadde subito come se avesse le gambe spezzate. Si sentì bagnare la fronte d’un freddo sudore.
«Sono perduto ormai,» mormorò, soffocando un rutto. «Chi potrebbe salvarmi? Addio… addio, generale… coboldi del cazzo. Ah! Come è stato breve il mio sogno… Ma no… non voglio morire solo e abbandonato in mezzo a questa foresta e servire di pasto alle fiere.»
Con uno sforzo disperato si alzò, tenendo in pugno la sciabola.
«In cammino,» disse con voce energica. «Se mi fermo sono perduto.»
Quantunque si sentisse le gambe rotte e provasse ancora dei forti brividi, partì di corsa, brancolando nel buio, urtando contro i tronchi degli alberi che si succedevano senza interruzione. Era, tanto per cambiare, ubriaco fradicio.
Quanto corse? Due passi soltanto o molto di più? Sfinito, febbricitante, cadde in mezzo ad un ammasso di foglie, perdendo quasi subito i sensi.


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