La Città del Re Leucrotta – Cap. X

Il Parco dei Batraci

 

L’ indomani, il dirigibile riprendeva il suo volo verso il settentrione, filando fra due rive assai sinuose, coperte da una vegetazione meravigliosa e svariata, che serviva d’asilo a miriadi di insetti nocivi ed a battaglioni corazzati di lucertole volanti. Superbi banani illusori dalle foglie immense formavano gruppi enormi, crescendo accanto a macchie di fangostani, di artoserpi dalle frutta rugose e shignazzanti, di durhun altissimi, di tonki dalla cui corteccia i coboldi ottengono un’ottima carta sui cui usi è meglio non indagare, di faang che somministrano una tintura rossa bellissima ma indelebile nel raggio di tre metri e di alberi della ghisa, i quali però non raggiungevano ancora le dimensioni straordinarie dei loro confratelli del settentrione. Di tanto in tanto, un baccano assordante rompeva improvvisamente il silenzio che regnava sulla grande fiumana: erano urla, strida, sghignazzamenti, fischi prolungati, poi latrati rauchi, bestemmie e parolacce. Una banda di gremlin, disturbata nei suoi saccheggi dall’improvviso apparire del dirigibile, si rifugiava precipitosamente sulla cima degli alberi costeggianti il fiume, e di là sfogava il suo malumore con grida discordi, con boccacce e con una tempesta di frutta e uova marce, per sparire poco dopo nel folto della foresta, al primo colpo di spingarda caricata a sale: l’arzillo vecchietto non perdeva inutilmente il suo tempo. Seduto a prua, a fianco di Ukhurra che era armata d’una pesante carabina e non voleva più averlo alle spalle, di quando in quando tirava qualche colpo contro gli stirge o qualunque altra cosa si muovesse per attraversare il fiume e di rado li mancava, facendo grugnire la nonna del generale di riluttante approvazione, e ora stava cercando di aprire una cassa di dinamite.
«Ma bravo!» esclamava la vecchia megera con sarcastica ammirazione. «Io potrei eguagliarvi con gli occhi bendati.»
«Non ne dubito, Ukhurra,» rispondeva il dottore. «Avete fulminato, a ottanta metri, quella bella gallina di palude che Fang sta spennacchiando.»
«E senza sparare, dottore.»
«Infatti. Non voglio sapere altro. E quello stirge che avete abbattuto poi, a cinquanta metri? Poche donne, credetelo, saprebbero fare altrettanto, con un semplice mestolo.»
«Lo so benissimo.»
«Ah.»
«La campagna contro gli Yeek mi ha agguerrito,» rispose l’arpia.
«Vi avete preso parte? Chi vi ha insegnato a colpire così bene?»
«La mia è una famiglia di guerrieri. Da generazioni manteniamo l’onore del regno, e tramandiamo le arti della guerra come la lotta nel fango e il lancio del mestolo. Ma mia figlia decise di sposare un minchione. E il risultato è sotto gli occhi di tutti.»
«Il generale, dite?»
«Quel cretino non conosce né le armi da fuoco né da mischia. Ignora cosa siano strategia e tattica, e preferisce la fuga o la menzogna. So che è comune tra i coboldi, ma è triste vedere le nostre tradizioni marziali finire in cacca.»
«E non potete, che so, insegnargli qualcosa?»
«È tempo sprecato, che credete?» rispose Ukhurra. «Ci ho provato migliaia di volte, ma Vronch è semplicemente un cretino. Ha fatto carriera con l’inganno e la frode.»
«Vorrei fare qualcosa di simile anch’io,» disse il dottore.
«Accontentatevi di pescare con la dinamite, dottore. E poi non ho capito che cosa ci fate, di preciso, qui
«Ehm, ehm, è una lunga storia, e poi una salda amicizia mi lega ormai alla vostra famiglia, no?» disse Eriprando, che si era improvvisamente alzato. «Piuttosto, non per cambiare discorso, che cos’è questo frastuono? Non lo sentite anche voi, Ukhurra?»
«Già, sento delle grida. Cosa può essere?»
Il fiume, che era sempre larghissimo e che descriveva di frequente delle curve assai accentuate, in quel luogo formava un brusco angolo, impedendo così all’equipaggio del dirigibile di poter scorgere ciò che succedeva dietro gli altissimi alberi che costeggiavano senza interruzione le rive. Le grida erano quasi subito cessate; si udiva invece ancora, di quando in quando, un colpo di tam-tam che la brezza, soffiando dal settentrione, portava fino agli orecchi dell’equipaggio e dei passeggeri.
«Vi sarà qualche villaggio dietro quella punta,» disse Vronch, che ascoltava attentamente. «Forse si sta celebrando qualche festa o qualche matrimonio.»
«O un funerale o un sacrificio di sangue. È sicuro il fiume?» chiese il dottore.
«Fino a Gaglarup non vi sono da temere cattivi incontri casuali. Le cannoniere del re impediscono ai mostri d’acqua dolce di scendere fin qui. Più o meno.»
«Sicché può darsi che più tardi facciamo brutti incontri? Troll? Ogrillon, minotauri, gorgoni?»
«Oh! Non sono poi così temibili per gente come noi che ha buoni pedali.»
«Se lo dite voi. Piuttosto, che cos’è quell’immenso affare là davanti?»
Sembrava un bacino, avente almeno duecentocinquanta piedi quadrati di estensione, formato da grossi pali piantati nel fondo del fiume, e coperto da un tetto leggermente inclinato, fatto con panconi di legno, con un’apertura nel centro, da dove si rizzava l’albero.
«È semplicemente un parco di rane cannibali. Là dentro ve ne saranno probabilmente delle centinaia, e mi pare che quegli indigeni si preparino a issarne qualcuna. Vi sarà molta richiesta sul mercato di Gaglarup, e le zampe sono un manicaretto assai ricercato dai ghiottoni e dai mangiatori di cadaveri. Gli allevatori fanno dei buoni guadagni, ve lo assicuro.»
«E si allevano quei ributtanti batraci per mangiarli?»
«Certo: si pagano quasi a peso d’oro.»
«Ma non sapranno un po’ di fango?»
«Non sapete quanto! Ma non sono cattive, credetemi, a parte il sapore che non a tutti forse può piacere, se vengono lasciate frollare al sole per un paio di settimane,» rispose Vronch. «Ne ho mangiato più volte anch’io nei pranzi offerti dai ciambellani di Gaglarup e di Horblonk e non l’ho trovata sgradevole, anzi. Beh, adesso…», e fece un gesto eloquente.
«E come fanno ad allevarle?»
«Come vedete, le chiudono in quel bacino quando sono ancora girini. Durante i due primi anni non si occupano di loro, bastando ai piccoli mostri le erbe che crescono in fondo al fiume; poi si comincia a offrire loro qualcosa di più solido, affinché si sviluppino rapidamente. Infatti dopo, il secondo anno la rana cannibale mette i denti, e da quel momento ingrassa con una rapidità incredibile. Allora si gettano loro in pasto, la mattina e la sera, attraverso l’apertura del tetto, carogne d’animali, cesti d’immondizie, cani, gatti, sassi, gomme di bicicletta ed avanzi d’ogni specie. Al terzo anno, quando hanno già raggiunto i quattro o i cinque quintali di peso, si comincia a pescarli.»
Il dirigibile, guidato da Fang, si era accostato al parco, e ora vi girava sopra come un avvoltoio. Si vedevano i terribili anfibi contorcersi furiosamente e si udivano muggire, mentre dall’apertura del tetto apparivano di quando in quando delle mascelle formidabili, armate di denti acutissimi e velenosi. Senza dubbio ce n’erano parecchie centinaia rinchiusi in quella gabbia; dovevano essere furiosi di trovarsi così stretti ed erano probabilmente assai affamati. Di tanto in tanto i muggiti aumentavano improvvisamente, formando un baccano assordante, e si udiva il tetto rimbombare sotto i colpi di zampa dei prigionieri. Violente risse dovevano scoppiare fra quei bruti per una sigaretta o pochi spiccioli, e terminavano colla morte di qualcuno che finiva in pasto ai vincitori.
Una dozzina di coboldi, yeek e goblin, armati di coltellacci e di scuri, stavano facendo scorrere le funi collegate all’albero che sorgeva nel mezzo del parco, per fare abbassare una specie di gabbia di bambù.
Uno yeek terrorizzato, armato di una scimitarra dalla lama pesantissima e assai sbilenca, un tridente, un’alabarda e un’ascia a due tagli, e portava attorno al corpo un rotolo di corda grossa e durissima, fu fatto salire nella gabbia a calcagnate, gridando:
«No! Non voglio! Tocca a Furg, oggi! Cazzo!»
I suoi compagni manovrarono le corde, sghignazzando e facendogli gestacci e la gabbia, sollevandosi sopra la piattaforma, andò a urtare contro l’albero, passando sopra il tetto del parco.
«Se quelle corde si spezzassero!» esclamò il dottore.
«Quel poveretto non si salverebbe certo da una morte orrenda,» rispose Vronch. «Pensate anche voi quello che penso io?»
Pochi secondi dopo il dirigibile si inclinò bruscamente di lato. Con un urlo agghiacciante, che i pescatori avrebbero ricordato per anni nelle loro leggende, Ukhurra volò fuori bordo per schiantarsi, venti metri più sotto, nel bel mezzo del bacino. Una colonna d’acqua si levò come un geyser, lanciando pezzi di legno e rane furibonde a parecchi metri di distanza.
Scesero di quota. Fang, che non aveva capito cos’era successo, in preda al panico distribuiva nerbate agli snotling che strillavano; Vronch e il dottore si strinsero la mano annuendo soddisfatti, mentre il dirigibile si fermava pochi metri sopra il recinto. Vedendo la gabbia dondolarsi sopra l’apertura del tetto, venti o trenta teste erano emerse, spalancando le terribili mascelle.
I batraci, terrorizzati, facevano sforzi disperati per balzare fuori, colla speranza di allontanarsi dalla vecchia, ma, pigiati com’erano in quello stretto spazio, appena appena potevano muoversi. Intanto, i compagni dello yeek si erano affrettati ad avvicinarsi, pensando fosse accaduta una disgrazia. Il riluttante pescatore sciolse allora il laccio, allargò il cappio, e dopo aver guardato per qualche po’ la gigantesca rissa che si svolgeva sotto di lui, lo lanciò. Fra le rane si manifestò per qualche istante una certa agitazione, specialmente quando videro lo yeek attaccare il laccio ad una carrucola, poi la gabbia si allontanò nuovamente, tratta alla riva da quelli che erano rimasti sotto la piattaforma.
Alla seconda strappata, più vigorosa della prima, si vide una forma tozza ma pesantissima innalzarsi fuori dall’apertura. Era Ukhurra, che aveva somministrato mazzate in abbondanza agli occupanti della pozza, ma non sembrava aver subito più di qualche graffio. La megera, sentendosi strappare alla carneficina e trascinare in alto, dapprima parve assai sorpresa e non cercò di dibattersi; ma quando si trovò a metà dell’albero e provò le prime strette del laccio, la sua rabbia scoppiò tremenda.
«Bastardi! Canaglie!», gridava, agitando la mazza ferrata, «Voi e le vostre rane del cazzo!»
La vecchia cominciò a dibattersi freneticamente, colla speranza di spezzare quella maledetta corda che la strozzava. Si contorceva disperatamente, muggendo con furore, avventava contro l’albero colpi di coda violentissimi che scrosciavano come se sparassero dei piccoli pezzi d’artiglieria, poi cercava di azzannarlo staccando larghi pezzi di legno, quindi colle gambe, rimaste libere, tentava di arrampicarsi, senza riuscire nel suo intento.
Sfinita da quegli sforzi, s’arrestava alcuni momenti colle mascelle spalancate, soffiando e sbuffando, gli occhi iniettati di sangue, poi tornava a balzare ed a contorcersi con maggior rabbia, non ottenendo altro scopo che quello di stringere sempre più il nodo che la strangolava.
Lo spettacolo era spaventevole e prometteva di durare a lungo.
«Ecco una scena che difficilmente si dimentica,» disse il dottore.
«È piuttosto ripugnante,» assentì Vronch.
«Durerà assai?»
«Qualche volta ho dovuto aspettare settimane, prima che le passasse l’incazzatura,» disse Vronch. «Ma non abbiamo tutto questo tempo. Fang!», gridò, «Fa’ scendere il pallone»
«E noi, sarà meglio che ci inventiamo una scusa plausibile», concluse il dottore.
Recuperarono la megera prima che sterminasse i pescatori. «Adesso,» ringhiò quando ebbe davanti il nipote, «Voglio sapere una sola cosa. Chi è stato?»
L’elaborata linea di difesa che Vronch e il dottore avevano concordato svanì dalla mente del coboldo. «Errrr…,» farfugliò, cominciando a indietreggiare. «Lui! È stato lui!» intervenne Von Basedoff. Indicò risolutamente uno degli snotling, che stava annodando una fune per ancorare il dirigibile. La creaturina si voltò di scatto con gli occhi spalancati. «Si! È vero! L’ho visto con questi stessi miei occhi,» incalzò Vronch, assecondandolo, «che Krustulas m’accechi se mento! Piccolo subdolo bastardo,» si rivolse allo snotling, «Chi ti manda? Per chi lavori?»
Il dottore aveva visto giusto. Gli snotling sono piccoli ed infingardi, e non compensano le loro deficienze fisiche con l’astuzia, tutt’altro. Vistosi puntare contro un dito inquisitore, l’omino si guardò attorno terrorizzato per un istante e poi se la diede a gambe strillando. I suoi compagni si guardarono l’un l’altro, confusi, poi guardarono Fang e i coboldi, poi si misero a parlare tutti assieme nella loro lingua, gesticolando freneticamente per indicare sé stessi, il fuggitivo che ormai era perso nella giungla, il dirigibile, alcune piante palustri e altre cose in rapida sequenza.
La discussione andò avanti parecchio. Ukhurra era sì astuta e malfidente, ma Vronch e il dottore erano da decenni esperti di truffa, adulazione e menzogne senza ritegno, e riuscirono ad erigere un vero e proprio baluardo di cazzate con cui confondere la vecchia e deviare la sua ira sugli snotling. Alla fine si rimisero in volo, lasciando i pescatori perplessi e sconvolti. Il Fulukh, più a settentrione, cominciava a restringersi, mentre la corrente diventava più rapida. Su entrambe le rive si rizzavano dei bellissimi alberi che lanciavano le loro bacche mollicce a quaranta e perfino a cinquanta metri di distanza, dai tronchi slanciati e ricchi di un abbondante fogliame verde cupo. In mezzo al fogliame bande di piccoli umanoidi appartenenti a varie specie si rincorrevano di ramo in ramo, mentre sulle cime volteggiavano goffamente grossi tucanodonti, bizzarri animali dal corpo d’uccello e la testa di facocero.
Di quando in quando, cominciavano ad apparire dei villaggi, per lo più miserabili, formati di poche capanne costruite su palizzate, per impedire a leucrotta e vermi-iena di forzare le porte nelle loro incursioni notturne, o di rovesciare le malferme pareti d’argilla e di rami malamente intrecciati. Alle sei di sera, verso il nord, sul nitido orizzonte apparvero improvvisamente le altissime guglie dei templi di Gaglarup, indorati dagli ultimi raggi del secondo sole tramontante.
Le cupole cadenti e scrostate scintillavano debolmente, mentre più all’est giganteggiava l’imponente piramide sacra innalzata a Krustulas, una massa enorme e semidistrutta che s’eleva a gradini irregolari, con statue numerose ed amorfe ed un Braazor colossale verso la cima, e corridoi vastissimi che servono d’asilo tranquillo a milioni di pipistrelli di fuoco, stirge, ragni volanti e forse un paio di meduse.
Gaglarup non ha la decima parte del movimento di Kuglurg, quantunque sia sempre la seconda città del regno, ed ha una popolazione di gran lunga inferiore a quella della rivale. Come però tutte le città antiche, ha avuto giorni di splendore, anche se non tanti, specialmente quando era capitale del regno e sede dei monarchi Fethrundesi. Fondata dal re U-Crong, detto il Mentecatto, sulle rovine d’un’altra antichissima città, sorse rapidamente come una specie di fungo velenoso, mercé la munificenza dei monarchi, e decadde altrettanto in fretta quando sporcizia, malattie e scarsità di fango speziato la resero inabitabile. Conserva ancora il suo palazzo reale, che, quantunque costruito tutto in legno d’albero di ghisa e topazi, ha resistito per tanti secoli alle intemperie; invece i suoi templi, che occupavano una superficie di molte miglia quadrate, sono quasi tutti in rovina.
Le male erbe ne hanno già coperti molti; tuttavia si possono ammirare ancora cupole superbe, arcate meravigliose, colonnati magnifici, guglie che sembrano coperte di trine ma in realtà sono ragnatele e guano di pipistrello, e una statua di Krustulas alta ben diciotto metri, colto nell’atto di mettersi un dito nell’orecchio per scacciare i demoni, rivestita di lamine di rame, che valeva dei tesori, perché s’impiegarono per la sua erezione ben 25.000 libbre di ghisa, 2.000 d’argento e 400 d’oro. Torme di avventurieri giunti dai quattro angoli del mondo la ridussero ben presto a uno scheletro butterato. Tutto il resto non è che una rovina, essendo crollati perfino i muri di cinta dei giardini reali e gli edifici dell’antico quartiere degli stranieri che pure erano in mattoni.
Tale d’altronde è il destino di tutte le capitali cobolde quando vengono abbandonate dalla corte: si lasciano crollare senza che nessuno se ne preoccupi, tranne i topi mannari del sottosuolo. Ecco il motivo per cui in quelle regioni si trovano così sovente, anche in mezzo ai boschi, delle rovine che un giorno dovevano aver appartenuto a città opulente e grandiose. Essendo ormai calata la notte, Vronch e il dottore decisero di rimanere a bordo del dirigibile, giacché vi era spazio sufficiente per dormire sotto il baldacchino e c’erano coperte di lana di yak oltre ai cuscini; gli altri si accamparono sulla riva.


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