La Città del Re Leucrotta – Cap. II

Il Re del Fethrund

 

La venefica Slupgopab, la sposa malmostosa ed infida del dio Dilmolkurg, così venerato dai coboldi, trovandosi un giorno a corto di fazzoletti, ricoprì di muco le pareti della sua stanza da bagno, dopo uno starnuto particolarmente violento. Le preziose particelle di quell’essere divino, come l’argilla dalle mani di uno scultore, si raccolsero sul pavimento, dov’erano mescolati sali da bagno delle più svariate specie, animaletti morti e funghi d’ogni genere. Tosto delle forme umanoidi cominciarono a delinearsi, ed una statuetta di bimbo, un piccolo, putrido golem uscì dalla vasca di cemento, entro cui la dea si bagnava. La dea – narra sempre la leggenda cobolda – lo colpì più volte con l’attizzatoio e, un vagito s’udì: «Ahia! Ma che cazzo!»: era un piccolo mostro che apriva gli occhi alla luce.
Era trascorso quasi un anno, quando il terribile Dilmolkurg, tornando dalla guerra contro i nani maligni che volevano bruciare il mondo coi loro petardi, con sua sorpresa e collera, e anche un po’ di schifo, trovò nel bagno del palazzo reale un mostro pestilenziale di cui non s’aspettava l’esistenza. Colto da un tremendo accesso di furore, andò a prendere il cric dal bagagliaio del suo carro falcato e spiaccicò la testa dell’indifesa ancorché ripugnante creatura.
La dolce Slupgopab raccontò allora con quale innocente artificio aveva animato quella statua, di cui aveva ad un tempo fornito la materia prima e la manifattura, e siccome vi sono dei casi in cui gli stessi dèi accettano volentieri le ipotesi più inverosimili, Dilmolkurg non sollevò alcun dubbio sull’innocenza della diletta sposa, anche perché a farlo rischiava le rotule. «Sono stato un po’ vivace,» le disse. «Ho l’abitudine di agire troppo precipitosamente in tutte le cose mie, ma conosco un mezzo per riparare al mal fatto.»
Appena pronunciate quelle parole, con un colpo della sua formidabile roncola Ronk-Uragh, fece saltare la testa del suo leucrotta da guerra e la posò sulle spalle del mostro decapitato: grazie a quel miracolo di chirurgia, solo possibile ad un dio, il maestoso Uthma-Thrang, la cui testa di leucrotta si dondola sul suo corpo gelatinoso, fu annoverato fra gli dei del Fethrund e del Gergarm, con potestà sui mostri ibridi, orrendi e indefinibili e, più in generale, su tutte le bestie che non si sa dove altro mettere, tipo l’Occhio Fluttuante, il Ciucciacervelli e il Signor Roper.
Come praticamente qualsiasi altro essere pluricellulare, il leucrotta era considerato un animale superiore allo stesso coboldo, sia per la sua mole, sia per la sua straordinaria intelligenza, sia per la sua forza prodigiosa, sia per la sua resistenza all’alcool. Dovevano i popoli confinanti o quasi confinanti con il Gergarm rimanere insensibili ad un tale avvenimento? Assolutamente no, e il leucrotta fu senz’altro accettato dagli Uruth prima e dai Fethrundesi poi, come simbolo della divinità protettrice di quegli stati.
Il culto poi si evolse e modificò col passare dei secoli. Possedendo quei paesi fortunati dei mostri bianchi, quantunque rarissimi, invece di innalzare agli onori le più bizzarre creature nelle loro forme e colori naturali, diedero la preferenza a quelli… ammalati!… Ormai è noto che i famosi leucrotta bianchi non sono altro che degli albini, anzi peggio che peggio, dei… lebbrosi, sfuggiti dai loro stessi compagni come appestati! E lo stesso vale per gli Occhi Fluttuanti bianchi, affetti da cataratta terminale. Ma la scelta dei mostri bianchi o quasi bianchi o macchiati di bianco come oggetti di ammirazione e di venerazione aveva un’origine religiosa. Sia gli Uruth che i Fethrundesi, infatti, sono tutti adoratori di Braazor, dio che i primi venerano sotto il nome di Shullud ed i secondi sotto quello di Krustulas, ma che in realtà altri non è che Uthma-Thrang in una delle sue numerose incarnazioni.
Ora le antiche leggende narrano che questo Krustulas si era incarnato mantenendo i propri poteri, per illuminare le masse ignoranti e che, perfettamente istruito in tutte le scienze, era penetrato fino dal primo istante della sua nascita nei segreti più reconditi della natura, e che la sua divinità si era manifestata con una lunga serie di prodigi e di miracoli stupefacenti sui quali sorvoliamo. Un giorno il dio, essendosi seduto all’ombra di un albero di poponi, salì in cielo su un paranco sfolgorante d’oro e di carbonchi, e si dice che gli spiriti celesti, atterriti dal suo aspetto rozzo e tracotante, abbandonarono il loro divino soggiorno e gli si prostrarono dinanzi per adorarlo. Tanta gloria avrebbe eccitato la gelosia e il furore del fratello Pustulas, che era stato creato con gli avanzi di Uthma-Thrang: egli aveva infatti corpo di leucrotta e testa blobbosa gelatinosa, il che rendeva i suoi ragionamenti alquanto confusi oltrechè astiosi, e per questo non aveva voluto incarnarsi, anche per timore di essere sbeffeggiato da chi poteva indossare il cappello. Questo losco individuo, sostenuto da un potente partito, cospirò contro il dio, fondando un nuovo culto che fu abbracciato dai re e dai principi. Il mondo si divise allora in due grandi fazioni, l’una delle quali seguiva Krustulas come modello di virtù, e l’altra lo scellerato Pustulas che colle sue massime ree istigava i coboldi e gli altri popoli al vizio e al turpiloquio. Arse la guerra, ed il malvagio fu precipitato, in un abisso fiammeggiante, dopo essere stato inchiavicato di mazzate per benino.
Narrano ancora le antiche leggende Fethrundesi e Uruthesi che il dio, per perfezionare meglio la sua anima, passò nel corso di cinquecento anni per i corpi di vari animali, fra cui quello d’un Leucrotta bianco, di un Rugginovoro bianco e di un Ratto-Cervello, del pari, bianco.
Era dunque naturale che quei popoli venerassero un simile animale e supponessero che nel suo corpo rivivesse l’anima del dio. Ecco spiegato il motivo per cui Fethrundesi e Uruthesi hanno, anche oggidì, tanta venerazione per quei rari candidi animali, che per i primi rappresentano Krustulas, e per gli altri Shullud ossia Braazor. Chiaro, no? Perciò la morte dell’ultimo Baldench non doveva mancare di produrre una disastrosa impressione non solo sull’animo del re, bensì dell’intera popolazione; ed era il settimo che spirava nello spazio di poche settimane!…
Quali catastrofi, quali tremendi disastri si preparavano per quel regno, privo della protezione del suo dio?
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Vronch uscì dal palazzo dei Baldench colla morte nel cuore e gli armigeri alle calcagna, per timore che se la svignasse come aveva già fatto più di una volta, prima di dare al re il terribile annuncio. Non era coboldo che avesse paura della morte, il ministro, oh no! Certo che no. Beh, insomma, per dirla tutta, sì.
Prima di essere innalzato a quella carica, Vronch era stato uno dei più famosi generali del regno, ed aveva combattuto, col tradimento, il veleno e il doppio gioco, contro gli Orchi di Froth, gli Snotling, gli Yeek di Vedryneta e i coboldi di Uruth che avevano violato le frontiere.
Quello che tormentava il suo animo era la triste sorte che forse gli avrebbe riservato la tremenda Ukhurra, la sua unica nonna che egli temeva pazzamente e che certo non avrebbe ben accolto la disgrazia che colpiva il nipote.
Era certo che il re non avrebbe mancato di accusarlo della misteriosa morte dei sette Baldench e che si sarebbe mostrato implacabile contro di lui, quantunque egli avesse speso puntualmente, fino all’ultimo nichelino – a parte qualche spicciolo che gli era finito inavvertitamente in tasca – le rendite della provincia di Ubon destinate al mantenimento di quei sacri abomini, e nulla avesse dimenticato per soddisfare il loro insaziabile appetito.
Uscì dunque, senza guardare in viso nessuno, cupo e affranto, a muso basso per evitare di pestare schifezze, le unghie delle guardie conficcate nel colletto della camicia, e cominciò a percorrere, camminando quasi a zig-zag per schivare le macerie, i viali che conducevano ai palazzi reali, le cui cupole cadenti scintillavano agli ultimi raggi dei soli morenti, sullo sfondo di un cielo variopinto. Nessuno aveva osato seguirlo, nemmeno il brauusk favorito dal povero Baldench, perché tutti temevano d’essere coinvolti nella disgrazia che aveva colpito il ministro.
Dopo aver percorso parecchi viali che costeggiavano dei putridi laghetti, dove si cullavano dolcemente eleganti barchette semiaffondate, e dove si bagnavano in gran numero le pantegane cornute dalle lunghe gambe e bande di aironi carnivori, Vronch, sempre assorto nei suoi tetri pensieri, si trovò dinanzi al palazzo abitato dal re. Era cinto tutto da muraglie altissime (per un coboldo: quasi due metri), che si prolungavano per parecchi chilometri, aperte qua e là da brecce, frane e buchi d’ogni dimensione, provocati dalla fanteria goblin, dalle inondazioni, dalle cavallette e dalla mancanza di manutenzione. Nel centro di quell’immenso recinto sorgeva il Mazpraat, ossia la gran sala dove il re usava ricevere gli ambasciatori delle potenze straniere, e dove si conservavano per un anno, racchiuse in un’urna di legno, le ceneri dei defunti re; sala ricca di dorature una volta, si diceva, meravigliose, ma ora inguardabili, eseguite dai più valenti artisti non solo del Fethrund bensì anche di Nastolos, Pifus e Telkelì.
Più oltre si trovava un altro ampio salone, a cui si accedeva per una gradinata di marmo fiancheggiata da gigantesche statue mostruose (per l’incompetenza degli scultori più che per il soggetto), e nel quale si trovava il trono, ricco di pietre preziose e coperto da un baldacchino diviso in sette scompartimenti, sotto cui il re riceveva i grandi della corte.
Vronch si diresse verso quella sala, che era attigua alle stanze reali del monarca e delle regine. Era sicuro di trovare il re senza dover troppo attendere. Salì col cuore trepidante la scala di marmo, aggrappandosi due volte alle enormi statue che gli pareva lo guardassero sogghignando; poi, facendo uno sforzo disperato, le guardie lo strapparono di lì e lo gettarono oltre la soglia senza rispondere al saluto del soldato di guardia che aveva puntato contro di loro l’archibugio.
Un ciambellano di corte, che indossava un magnifico vestito rosso a fiori gialli, e aveva alla coda numerosi braccialetti d’oro finto e ai piedi zoccoli a punta rialzati con perle e vetrini, vedendo entrare Vronch si affrettò a muovergli incontro, accompagnato da due paggi pure sfarzosamente vestiti.
«Il re?» gli chiese brevemente il ministro degli elefanti bianchi, facendo uno sforzo supremo per divincolarsi dalla stretta degli armigeri.
«È appena tornato nelle sue stanze, mio signore,» rispose il ciambellano. «Ha finito or ora il ricevimento della missione deyeren e credo che non abbia avuto nemmeno il tempo di spogliarsi.»
«Va’ a dirgli che mi urge vederlo.»
«Vronch è sempre gradito a Sua Maestà… Ma che cosa hai, mio signore? Tu tremi e sei trasfigurato.»
«Disgrazia, disgrazia,» gemette il generale.
«Il Baldench?…»
«Morto… ma posso spiegare tutto! Non c’entro! È stata una disgrazia! Non è colpa mia!»
Il ciambellano fece rapidamente alcuni passi indietro, per evitare che l’implorante ministro gli si aggrappasse al vestito, sgualcendolo. Fece un inchino meno profondo del solito e scomparve per una delle porte laterali che metteva negli appartamenti riservati al re. Sentirono la sua risata allontanarsi.
«Tutti mi abbandonano e mi sfuggono come un lebbroso,» mormorò Vronch. «Ieri erano vili servi, ora che arrivano le mazzate, fanno tanto i fighi. Bastardi. E voi mollatemi, cazzo e doppio cazzo.», aggiunse, rivolto alle guardie.
Lo strepito d’una porta che s’apriva lo trasse bruscamente dai suoi tristi pensieri. Alzò gli occhi e trasalì.
Ritto sul primo gradino che conduceva alla piattaforma del trono e ancora vestito del gran costume di gala, stava ritto il re, collo sguardo cupo e la fronte aggrottata.
Woorplah-Hugabdib-Vund-Rahgtru-Greng, re del Fethrund, era ancora un coboldo imponente e sagace, quantunque di età già matura, dalla pelle coriacea e dal portamento dignitoso, come si addiceva ad un monarca potente, anzi il più potente di tutti gli stati dell’Est.
Indossava ancora, come abbiamo detto, l’abito di gran gala, avendo appena terminato allora di ricevere un’ambasciata straordinaria inviatagli dal governo deyeren. Woorplah aveva dunque sul capo la famosa corona reale, una specie di piramide di zinco e crisopazio, alta più d’un piede, ornata all’intorno di opali e perle scaramazze, che doveva ben pesargli sul cranio; indossava una giubba di tessuto pesante, a lamine smaltate, che s’incrociava sotto la cintura, tutta adorna di perle e di pietre preziose di valore inestimabile; calzoni larghi, pure cosparsi di lamine e di pietre; e ai piedi aveva degli zoccoli che avrebbero potuto far felice una gorgone, tanto erano pesanti e ricchi di vetrini e specchietti.
Il re doveva già essere stato informato dal ciambellano della morte dell’ultimo dei sette Baldench, poiché la sua faccia tradiva una profonda preoccupazione, e i suoi occhi erano animati da una fiamma sinistra e le sue fauci sbavavano.
Vronch, divincolatosi dalle guardie, attraversò rapidamente la sala e si lasciò cadere in ginocchio dinanzi al re, dicendogli:
«Anche se mi credi colpevole, o mio re, non uccidermi! Ti prego! Tipregotipregotipregotiprego! »
Re Woorplah rimase silenzio per un terzo di secondo; poi la collera, a malapena frenata, scoppiò con violenza inaudita.
«Sei un miserabile!» gridò il re. «Canaglia! Infame! Puzzone! Io ti avevo affidato a te i miei sacri mostri bianchi, perché te ti credevo il coboldo più atto che coprivi quella carica, e tu me li hai fatti morire tutti morti! Tu hai nel tuo vile corpo la maledizione di Krustulas! Ma io a te t’ammazzo! Datemi un archibugio!»
«Non è stata colpa mia!» ripeté il disgraziatoammirazione e di venerazione aveli sguardi verso il monarca. «Ti giuro che la mia coscienza nulla ha da rimproverarsi; io ho speso regolarmente, fino all’ultimo nichelino, la rendita della provincia che tu avevi destinato alla corte dei Baldench, ed ho fatto il possibile perché a loro nulla mancasse. È stato qualcun altro! Che colpa ho io? Qualcuno, che non teme la punizione di Krustulas, sfida la giusta collera del suo re e si nasconde nelle tenebre, ha osato gettare il maleficio sui mostri bianchi! Ecco, si, è andata così! È un complotto!»
«Credi, con queste cazzate, di farla franca?» chiese il re. «Ma mi prendi per scemo?»
«Si! Cioè, no! No, certo che no! Ma che interesse avrei a mentire, o mio Sovrano? Tu sai che ti sono sempre stato fedele! E tu che sei il più lungimirante, saggio e sgamato fra i sovrani, non vuoi ascoltare la supplica del tuo servo non più giovane?»
Woorplah, colpito da quelle parole, si rasserenò leggermente. La fiamma minacciosa che gli brillava poco prima negli occhi si dileguò, e anche le rughe della fronte a poco a poco si spianarono.
«Tu hai mica un sospetto, generale?» chiese, dopo qualche istante di silenzio.
«La morte dei Baldench, in così breve tempo, non mi pare naturale, o mio signore,» rispose il ministro.
«E chi avrebbe osato gettare un maleficio sui Baldench? Dove trovare nel mio regno un coboldo che abbia tanto coraggio da sfidare l’ira di Krustulas?»
«E se fosse uno straniero, uno che non credesse al nostro dio?» disse Vronch, che s’aggrappava a tutto per ritardare la sua perdita.
«Uno straniero! Ma che cazzo dici?» esclamò Woorplah , che per la seconda volta era stato colpito dalle risposte del suo ministro.
«Tu sai, o mio signore, che molti t’invidiano la tua potenza e la protezione che godi da parte di Krustulas.»
«E i miei Baldench,» si lasciò sfuggire, forse involontariamente, il monarca. «Il mio vicino, il re di Uruth, che ci ha un solo mostro bianco e già molto vecchio, un Ootyugh, mi aveva proposto, or non è molto, una barca di quattrini perché gli vendevo uno dei miei Baldench. Coglione.»
Ma subito dopo, quasi si fosse pentito di aver pronunciato quelle parole, aggiunse con un ghigno:
«No, non può essere mica vero, il re di Uruth è un coboldo al pari di noi, e non avrebbe osato sfidare mica la collera di Krustulas, che protegge pure il suo regno e che il suo popolo adora al pari di noialtri. Se ciò era vero, Krustulas ci faceva ritrovare altri bianchi leucrotta, funghi sapienti e cocatrici, mentre tutte le spedizioni, da me organizzate con immense spese, sono tornate a mani vuote senza che trovavano niente. Tu solo sei colpevole che hai causato la morte dei Baldench per inesperienza o per altre cause che io ancora ignoro; ma appena mi vengono in mente le parole, son cazzi tuoi.»
«Basta che non mi fai uccidere,» rispose Vronch. «Un generale che ha sfidato la morte sui campi di battaglia, per la gloria e la grandezza della nazione, non ha paura, certo che no, ma ormai ho una certa età.»
Woorplah, in preda ad una viva eccitazione, si mise a passeggiare per l’ampia sala, agitando la coda, senza rispondere al ministro. Aveva la fronte tempestosa ed il cupo lampo era tornato a brillare nei suoi occhi, indizi certi d’una collera violentissima; ad un tratto si fermò dinanzi a Vronch, che era rimasto sempre a faccia in giù ai piedi del trono, dicendogli con voce aspra:
«Che cosa accadrà ora del mio regno, privo della protezione dei mostri bianchi, che racchiudevano l’anima di Krustulas? Quali tremende sfighe piomberanno sul Fethrund? Carestie, epidemie, invasioni di nemici, disastri che manco mi immagino, inondazioni e terremoti e la gente che s’ammazza per strada e i bambini che dicono parolacce; e forse suonerà l’ultima ora per la mia dinastia. E tutto ciò lo dovremo a te, miserabile, che non hai saputo curare la salute dei nostri Baldench ed hai irritato il nostro dio. Levati dai miei regali coglioni e torna a casa tua, dove attenderai i miei ordini. Il popolo ed i nobili vorranno giustizia e l’avranno.»
«Ma Ukhurra… » gemette il disgraziato ministro.
«Tua nonna diverrà schiava. Finirà a lavorare nelle miniere di amianto di Chesochan, a meno che…»
«Cosa? Cosa, cosa, COSA?» chiese pacatamente Vronch.
«…a meno che tu non trovi il modo di procurarmi almeno un Baldench.»
«Se colla mia vita potessi trovarlo, non esiterei a sacrificarla, mio signore. Ma è un discorso più teorico che pratico. Voglio dire…»
«Tu sei maledetto da Krustulas e la tua vita non vale, oggi, un beato cazzo! Vattene e attendi a casa tua il mio castigo! Sciò! Via! Fuori di qui!»
Ciò detto Woorplah, in preda ad una collera furiosa, si diresse verso una delle porte di legno, incrostate d’avorio e di madreperla, che mettevano negli appartamenti reali, e scomparve nei meandri del palazzo.
Vronch si alzò in piedi, con la coda tremante e la lingua penzoloni.
«Tutto è finito,» disse, «ma i grandi ed il popolo non assisteranno alla mia punizione. Il vecchio generale, vincitore degli Uruth e degli Yeek, non ha paura della morte. Me la squaglio.»
Si precipitò verso la gradinata che conduceva ai giardini reali. Non si accorse nemmeno che la sentinella di guardia dinanzi alla porta, non gli rese il solito saluto, ma anzi tentò di infilzarlo con la baionetta. Riattraversò, sempre immerso nei suoi dolorosi pensieri, i giardini e le discariche, nei cui viali cominciavano già ad addensarsi le prime tenebre e i primi branchi di topi mannari, e si diresse verso la palazzina dalla quale era uscito prima di recarsi nella sala dei Baldench. Fang, il suo infido paggio, lo aspettava sulla porta della magnifica sala. Vedendo comparire il padrone così disfatto, intuì la disgrazia che lo aveva colpito.
«Oh mio povero signore,» esclamò, colle lagrime agli occhi. «Il Signor leucrotta bianco è morto dunque?»
«Sì,» rispose il generale con voce rauca. «Tutto è finito!»
«E il re?»
Invece di rispondere, Vronch entrò nella sala e con un gesto rabbioso gettò lungi da sé l’alto cappello a punta, di stoffa bianca, a strisce bianche e rosse, adorno d’un largo cerchio dorato con incisioni che rappresentavano dei fiori, pesci e oggetti d’antiquariato, insegna della sua carica; poi si strappò di dosso, lacerandola, la veste consunta e macchiata e la lunga sciarpa che gli avvolgeva i fianchi, facendo tutto a brandelli coi denti.
«Che cosa fai, mio signore?» chiese Fang, spaventato.
«Fatti i cazzi tuoi! Mi sbarazzo delle insegne del mio grado,» disse Vronch, coi denti stretti. «Io non sono più il ministro della corte dei Baldench; oggi sono un miserabile senza carica, uno schiavo, forse un condannato ad una morte infame. Ma Vronch non finirà in pasto ai regali piranha e non darà al suo occulto nemico, né ai grandi, né al popolo, una tale soddisfazione. Mi volete morto? Benissimo. Ma prima dovete prendermi! Maledetti bastardi, voi e il vostro leucrotta del cazzo! Il vecchio generale mostrerà a tutti come un prode che ha sfidato il fuoco dei nemici del suo re ne sappia una più del diavolo. Maledette le insegne del mio grado… Che il vento vi disperda. Ptui! Ptui! Fang, dammi un’altra veste, onde nessuno più riconosca in me il ministro della corte dei Baldench. Il vestito da suora andrà benissimo. E prepara le valigie.»
«Mio signore…»
«Taci e obbedisci!…»
Fang, che conosceva troppo bene il suo padrone, uscì per tornare poco dopo con una bracciata di pezze di stoffa nera, che le monache Fethrundesi indossano in vari modi incrociandole attorno al corpo, alle gambe, alle braccia e alla coda; e dei calzoni larghissimi, zoccoli di legno a forma di papero, occhiali scuri nonché parecchi cappelli in forma di fungo o di cono o d’imbuto. Vronch si vestì frettolosamente, si applicò un paio di baffi finti, si gettò sulle spalle una fascia di seta assai larga che poi avvolse intorno al collo, in modo da coprirsi anche parte del viso, e uscì.
«Mio signore,» gli disse Fang, che si disponeva a seguirlo. «Devo farti preparare il palanchino?»
«No,» rispose seccamente il generale. «Va’ ad attendermi a casa mia e non dire nulla alla nonna.»
Scese una gradinata di marmo prossima al crollo, percorse un corridoio pieno di ragnatele e aperse una porticina, slanciandosi nella via.
Era uscito dal palazzo reale.


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