Il Libro del Sole e dello Scorbuto: Arcanum Pistacchiorum

«Arturo! Apri!»
«Chi è? Chi bussa?»
«Sono io, Taddeo! Lascia che ti parli, per l’amor di Dio!»
La serratura scattò.
Taddeo, entrando nella stanza, fu quasi colto dal capogiro per il calore a dir poco infernale che vi regnava. Le finestre sbarrate, la stufa accesa, il camino stracolmo di legna, le pesanti tappezzerie, le pile di libri e faldoni di documenti sparsi per ogni dove, tutto contribuiva a rendere l’atmosfera soffocante. Arturo, forse per il caldo o forse a definitiva dimostrazione della sua follìa, indossava solo un paio di mutandoni a righe e una maglietta sdrucita, e nonostante ciò era fradicio di sudore; i capelli arruffati, l’espressione di insano trionfo e il tremito che lo scuoteva, rendevano irriconoscibile in lui il brillante scrittore che Taddeo conosceva fin dall’infanzia. L’aspetto del vecchio amico era talmente incongruo che Taddeo impiegò un attimo a rendersi conto che nella stanza c’era un’altra persona: seduto su una sedia accerchiata da torri di scartoffie, stava Tullio, avvocato, amico anche lui di lunga data. Impeccabilmente vestito come sempre, non sembrava risentire del caldo.
«Allora?» chiese Arturo «Che vuoi? Ti hanno mandato loro?»
«Se per “loro” intendi i tuoi genitori, Arturo, ebbene sì. Mi hanno chiesto, anzi, implorato, prima che come medico, come tuo amico di infanzia, di scoprire le cause del tuo – »
«Ah! Lascia perdere queste minchionerie! So perchè sei qui!»
«Ma… io…»
«È per l’eredità, vero? È per questo che ti hanno mandato, eh? I soldi!»
«Arturo! Che modi sono? Stento a riconoscere in te il – »
«Lascia perdere, Taddeo,» s’intromise l’avvocato. «Non se ne viene fuori. È da stamattina che tento di farlo ragionare, ma…» e si portò l’indice alla tempia, con gesto eloquente.
«Sì, avanti, bravi! Ridete di me! Sghignazzate, datemi del matto, canzonatemi quanto v’aggrada, ma ne avrete ancora per poco, ora che finalmente ho…. QUESTI!»
Così dicendo, con gesto trionfale, Arturo mostrò ai due una manciata di –
«Cosa sono?», chiese Taddeo.
«Pistacchi», disse Tullio, scuotendo sconsolato la testa.
«Pistacchi?»
«Sì! Pistacchi! Ha ha ha! Finalmente!»
«…»
«Meglio che ti sieda, Taddeo,» disse Tullio, «perchè adesso parte con la storia dei magici pistacchi di Gerbillo d’Aurillac..»
«Gerberto, sciocco! Ger-ber-to!»
«Seee, Gerberto, Gerberto, va bene. Bevi qualcosa, Taddeo? Ti conviene.»
«No, scusa, spiegami un po’ questa cosa dei pistacchi? Cosa c’entra con l’eredità?»
«Se li è comprati.»
«Con i soldi dell’eredità? E… e…» Taddeo allargò le braccia a sottolineare la sua confusione. «E allora?»
«No, non ci siamo capiti. Ha speso tutto», e picchiò il dito contro il tavolo, «per comprare quelli», e puntò l’indice verso i pistacchi.
«COSA?» Taddeo scattò in piedi, inorridito. «Arturo! È vero ciò che dice? Hai davvero commesso un simile scempio?»
«Ebbene sì!» ghignò il folle. «E lo rifarei!»
Con gesto solenne, stese un fazzoletto al centro del tavolo e vi rovesciò sopra i pistacchi. «Questi,» sentenziò, «sono i leggendari pistacchi di Gerberto di Aurillac. Appartengono alla mia famiglia da generazioni, e io ne sono tornato in possesso dopo decenni di ricerche. Andarono perduti durante la strage degli Ugonotti, ed è stato solo grazie agli scritti di un prozio, frate cappuccino in odore di santità, che ho scoperto dov’erano custoditi. Un complotto massonico, badate, che vide-»
«Non sembrano tanto vecchi,» disse Taddeo.
«Infatti li ha comperati dal fruttivendolo di via Mameli,» fece notare Tullio.
«Non li ho comperati! Li ho riscattati! Sono tornato in possesso di ciò che mi spetta di diritto! Per troppo tempo mi avete impedito di – »
«E per quei, ehm, pistacchi hai speso tutta la tua parte dell’eredità di zio Ciro? Era una bella sommetta. I tuoi genitori ne facevano gran conto. Una casa qui in centro…»
«… una villa in campagna…»
«… titoli e obbligazioni… »
«… c’era anche quel ritratto, te lo ricordi, quello di suo nonno vestito da suora?»
«Già! Sono sempre stato affezionato a quel quadro!»
«Ha ha ha!»
«Ha ha ha!»
«…»
Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato.
«Posso assaggiarne uno?» chiese Tullio, con fare innocente.
«NO! Sei pazzo?»
«Io?»
«Insomma, basta!» Taddeo si alzò di scatto, picchiando le mani sul tavolo. «Arturo, per quanto mi addolori dirtelo, sei matto. Sarà stata colpa del caldo insolito, dei troppi romanzi di avventure, dell’influenza nefasta della figura materna o dell’assenzio, questo lo ignoro. Però sei matto come un cavallo.»
«Io?»
«Sì, tu, Arturo! Ma non temere, mio vecchio amico, ci prenderemo cura di te! Ti faremo restituire il danaro ingiustamente sperperato e ti rinchiuderemo da qualche parte finchè non riprenderai a ragionare. E per quanto riguarda queste odiose anacardiacee – ecco cosa ne faccio!»
E così dicendo, li gettò nel camino.
«NOOOOOOOO!» Arturo cacciò un grido inumano e si lanciò verso il suo tesoro. I due amici dovettero afferrarlo e trattenerlo per le braccia e per il collo, onde evitare che si gettasse nelle fiamme. «Pazzi, che avete fatto!»
«Credimi, » disse Taddeo, in tono consolatorio, «fa più male a me che a te.»
«No, non capite!», gridò il folle. «Guardate cosa avete fatto!»
La voce di Arturo era così carica di terrore che i due non poterono far altro che guardare. In mezzo alle fiamme, dove poco prima c’erano stati i misteriosi pistacchi, roteava una chiazza luminosa, azzurra, grande dapprima quanto un piattino da tè, ma rapidamente crescente. Tutto il resto della stanza sembrò tremare e perdere di consistenza, come un sogno al momento del risveglio. I tre amici si strinsero l’un l’altro, e, mentre le pareti, deformandosi come cera fusa, scivolavano nella chiazza roteante, dal vortice uscivano forme bizzarre e incomprensibili, rinoceronti volanti, castelli di marzapongo, globi luminosi farraginosi,

solescorbuto

 

***


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arcanum pistacchiorum


«Arturo! Apri!»

«Chi è? Chi bussa?»

«Sono io, Taddeo! Lascia che ti parli, per l’amor di Dio!»

La serratura scattò.

Taddeo, entrando nella stanza, fu quasi colto dal capogiro per il calore a dir poco infernale che vi regnava. Le finestre sbarrate, la stufa accesa, il camino stracolmo di legna, le pesanti tappezzerie, le pile di libri e faldoni di documenti sparsi per ogni dove, tutto contribuiva a rendere l’atmosfera soffocante. Arturo, forse per il caldo o forse a definitiva dimostrazione della sua follìa, indossava solo un paio di mutandoni a righe e una maglietta sdrucita, e nonostante ciò era fradicio di sudore; i capelli arruffati, l’espressione di insano trionfo e il tremito che lo scuoteva, rendevano irriconoscibile in lui il brillante scrittore che Taddeo conosceva fin dall’infanzia. L’aspetto del vecchio amico era talmente incongruo che Taddeo impiegò un attimo a rendersi conto che nella stanza c’era un’altra persona: seduto su una sedia accerchiata da torri di scartoffie, stava Tullio, avvocato, amico anche lui di lunga data. Impeccabilmente vestito come sempre, non sembrava risentire del caldo.

«Allora?» chiese Arturo «Che vuoi? Ti hanno mandato loro?»

«Se per “loro” intendi i tuoi genitori, Arturo, ebbene sì. Mi hanno chiesto, anzi, implorato, prima che come medico, come tuo amico di infanzia, di scoprire le cause del tuo – »

«Ah! Lascia perdere queste minchionerie! So perchè sei qui!»

«Ma… io…»

«È per l’eredità, vero? È per questo che ti hanno mandato, eh? I soldi!»

«Arturo! Che modi sono? Stento a riconoscere in te il – »

«Lascia perdere, Taddeo,» s’intromise l’avvocato. «Non se ne viene fuori. È da stamattina che tento di farlo ragionare, ma…» e si portò l’indice alla tempia, con gesto eloquente.

«Sì, avanti, bravi! Ridete di me! Sghignazzate, datemi del matto, canzonatemi quanto v’aggrada, ma ne avrete ancora per poco, ora che finalmente ho…. QUESTI!»

Così dicendo, con gesto trionfale, Arturo mostrò ai due una manciata di –

«Cosa sono?», chiese Taddeo.

«Pistacchi», disse Tullio, scuotendo sconsolato la testa.

«Pistacchi?»

«Sì! Pistacchi! Ha ha ha! Finalmente!»

«…»

«Meglio che ti sieda, Taddeo,» disse Tullio, «perchè adesso parte con la storia dei magici pistacchi di Gerbillo d’Aurillac..»

«Gerberto, sciocco! Ger-ber-to!»

«Seee, Gerberto, Gerberto, va bene. Bevi qualcosa, Taddeo? Ti conviene.»

«No, scusa, spiegami un po’ questa cosa dei pistacchi? Cosa c’entra con l’eredità?»

«Se li è comprati.»

«Con i soldi dell’eredità? E… e…» Taddeo allargò le braccia a sottolineare la sua confusione. «E allora?»

«No, non ci siamo capiti. Ha speso tutto», e picchiò il dito contro il tavolo, «per comprare quelli», e puntò l’indice verso i pistacchi.

«COSA?» Taddeo scattò in piedi, inorridito. «Arturo! È vero ciò che dice? Hai davvero commesso un simile scempio?»

«Ebbene sì!» ghignò il folle. «E lo rifarei!»

Con gesto solenne, stese un fazzoletto al centro del tavolo e vi rovesciò sopra i pistacchi. «Questi,» sentenziò, «sono i leggendari pistacchi di Gerberto di Aurillac. Appartengono alla mia famiglia da generazioni, e io ne sono tornato in possesso dopo decenni di ricerche. Andarono perduti durante la strage degli Ugonotti, ed è stato solo grazie agli scritti di un prozio, frate cappuccino in odore di santità, che ho scoperto dov’erano custoditi. Un complotto massonico, badate, che vide-»

«Non sembrano tanto vecchi,» disse Taddeo.

«Infatti li ha comperati dal fruttivendolo di via Mameli,» fece notare Tullio.

«Non li ho comperati! Li ho riscattati! Sono tornato in possesso di ciò che mi spetta di diritto! Per troppo tempo mi avete impedito di – »

«E per quei, ehm, pistacchi hai speso tutta la tua parte dell’eredità di zio Ciro? Era una bella sommetta. I tuoi genitori ne facevano gran conto. Una casa qui in centro…»

«… una villa in campagna…»

«… titoli e obbligazioni… »

«… c’era anche quel ritratto, te lo ricordi, quello di suo nonno vestito da suora?»

«Già! Sono sempre stato affezionato a quel quadro!»

«Ha ha ha!»

«Ha ha ha!»

«…»

Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato.

«Posso assaggiarne uno?» chiese Tullio, con fare innocente.

«NO! Sei pazzo?»

«Io?»

«Insomma, basta!» Taddeo si alzò di scatto, picchiando le mani sul tavolo. «Arturo, per quanto mi addolori dirtelo, sei matto. Sarà stata colpa del caldo insolito, dei troppi romanzi di avventure, dell’influenza nefasta della figura materna o dell’assenzio, questo lo ignoro. Però sei matto come un cavallo.»

«Io?»

«Sì, tu, Arturo! Ma non temere, mio vecchio amico, ci prenderemo cura di te! Ti faremo restituire il danaro ingiustamente sperperato e ti rinchiuderemo da qualche parte finchè non riprenderai a ragionare. E per quanto riguarda queste odiose anacardiacee – ecco cosa ne faccio!»

E così dicendo, li gettò nel camino.

«NOOOOOOOO!» Arturo cacciò un grido inumano e si lanciò verso il suo tesoro. I due amici dovettero afferrarlo e trattenerlo per le braccia e per il collo, onde evitare che si gettasse nelle fiamme. «Pazzi, che avete fatto!»

«Credimi, » disse Taddeo, in tono consolatorio, «fa più male a me che a te.»

«No, non capite!», gridò il folle. «Guardate cosa avete fatto!»

La voce di Arturo era così carica di terrore che i due non poterono far altro che guardare. In mezzo alle fiamme, dove poco prima c’erano stati i misteriosi pistacchi, roteava una chiazza luminosa, azzurra, grande dapprima quanto un piattino da tè, ma rapidamente crescente. Tutto il resto della stanza sembrò tremare e perdere di consistenza, come un sogno al momento del risveglio. I tre amici si strinsero l’un l’altro, e, mentre le pareti, deformandosi come cera fusa, scivolavano nella chiazza roteante, dal vortice uscivano forme bizzarre e incomprensibili, rinoceronti volanti, castelli di marzapongo, globi luminosi farraginosi, quandecchi selvatici e pinguini tiranni, immensi coni di ghisa e funghi parlanti, dadi di ogni forma e dimensione, tesseratti, cani demiurghi, monete di electrum, divinità palindrome e cappelli con l’elica, meduse di gelatina e peperoni cosmici, legioni romane, treni a vapore, elefanti a sei zampe, blatte parlanti, filosofi incompresi e gentiluomini dal lungo collo meccanico, annichilatori borbonici, cyborg di fecola, milze parlanti, audaci anacoluti, sillogismi impossibili, eroici esploratori dell’ignoto, gechi quadrati, gufi di Tebe, creature monopiede, lombrichi dell’abisso, nonne apocalittiche, mufloni al bismuto, calamari vampiri, cubi tetradimensionali, monoliti di tvfo, bestie pistapaute, totani, colbacchi, sarchiaponi, ammassi di porfido, pensieri fugaci, palafrenieri, criceti di ceramica, coniglietti fluffosi, mostre all’Outback, e un sacco di mazzate.


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